Domenica sera, verso le sette, prima dell’Amicone horror picture show, piove che Dio la manda.
Faccio due parole con il candidato, nel senso di Luigi Amicone.
Come va la campagna? gli chiedo.
Molto istruttiva, dice lui.
E racconta di essere stato dai francescani (ottomila pasti al giorno alla mensa dei poveri e crescono i papà, separati, che ci vanno con i figli piccoli. Senza che il Comune dia loro una lira).
Aggiunge: Non prendo un voto lì, ma mi aiuta a capire.
Non ha soldi (abbiamo fatto fatica a trovare di che pagare le salamelle per la festa), ha stampato quattro santini e qualche pieghevole, va in giro e ci prende gusto, conosce, incontra, impara, racconta, si appassiona.
Ti fa conoscere i suoi amici cinesi (ce n’è uno che parla come un vecchio cumenda della Milano di una volta: «Quando Amicone parla, non è che si capisca molto quel che dice, salta le parole, perché, col pensiero, lui, è già avanti», dice), i City Angels che danno una mano a profughi e senzatetto, gli amici ebrei, Vittorio e Giuseppe in particolare, suor Monia che si batte da una vita per la parità scolastica e prega perché la politica non lo rovini; ti dice dei pensionati che hanno bisogno dell’autobus per andare a trovare i loro morti a Musocco e di altre persone comuni come fossero le più importanti al mondo.
La Gelmini e Parisi, che passano di lì domenica sera, non dicono una parola, salgono sul palco e cantano, con ifavolositaylor, Giannagianna e i Watussi.
Uno mi spiega che è normale, che lo fanno tutti, che è la campagna elettorale. Niente di nuovo sotto il sole.
Un altro, invece, dice che non si fa così, che deve promuoversi di più, che non deve andare dove sa di non prendere voti, che è il solito Amicone sgangherato e disordinato.
Il neodirettore di Tempi sostiene che Luigi è simpatico e per questo, forse, ha qualche speranza di farcela.
Vero, penso io, ma non è tutto.
C’è un accento, un habitus, un carattere che lo distingue; è suo ma non viene da lui.
Quando, tanti anni fa, ho conosciuto lui e i suoi amici mi ha impressionato una cosa: questi, pensavo tra me e me, sono pieni di difetti e di contraddizioni, ma sono legati tra loro, perché sono legati a qualcuno, come i figli con il papà. Io, magari, sembro più a posto, ma sono un isolato.
Loro no, loro sono cristiani, appartengono al Dio incarnato, al Dio presente, al Dio vivente. Come gli apostoli, prima e dopo la resurrezione, ancora di più.
In questo modo quel che consideravo morto è diventato tutto: vita, speranza, perdono, conoscenza, giudizio, amicizia.
Ha ragione il neodirettore Boffi: si può vincere anche se si perde. E, aggiungo io, se si vince, si può non appartenere a questa vittoria contingente, perché si appartiene alla vittoria definitiva.
Questa avventura amiconiana è il segno riconoscibile di questo. Un segno antico e nuovo allo stesso tempo.
I temi della sua campagna elettorale, libertà dell’educazione e costruzione di comunità umane, vengono da questa fonte.
Conviene farci un pensiero serio.
E dare una mano.
Per esempio, venerdì 3 giugno, appuntamento a Tempi, via Confalonieri 38, alle 8.30; poi, a gruppetti si gira per i mercati, per i luoghi di studio e di lavoro oppure si va dove ciascuno deve andare, si telefona a chi si deve telefonare, si vede chi si deve vedere e si porta dentro tutto questo mondo la A di Amicone.