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Senza guardare la morte, che senso ha qualunque parola sulle nostre vite?

L'ultimo respiro di due antichi amici indimenticabili, Emanuele Macaluso e Eugenio Corecco

Renato Farina
17/02/2021 - 1:31
Magazine
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Eugenio Corecco

Siamo circondati dalla malattia e dalla morte. Non si potrebbe cominciare un articolo con un pensiero più tetro e respingente, non è vero? Da toccarsi le palle, come si dice anche qui in Armenia. Eppure, sarà il cristianesimo iniettato nelle vene, o la testimonianza di certe resurrezioni, tra noi molokani queste brutte parole non sono il sigillo del male, non sono l’apocalisse del demonio vincente. Senza guardare la morte, la nostra morte, che senso ha qualunque parola sulle nostre vite? 

Mi è giunta notizia, qui presso il lago di Sevan, dell’addio di antichi amici indimenticabili. Grandi sacerdoti, educatori e missionari. Ben altri su Tempi ne hanno proposto l’insegnamento. Anche il loro ultimo respiro regala ossigeno di eternità. Qui offro due frammenti strani sulla vecchiaia e la morte, e mi scuso per rivelare loro momenti privatissimi ma non segreti.

Emanuele Macaluso è deceduto nel sonno a 96 anni. Siciliano e comunista. Impossibile non averne stima. Mi fu presentato tanti anni fa da Paolo Liguori. Nessuno ha conteso le sue spoglie rivendicando o negando una sua conversione, come capitò a un altro grande comunista siciliano, Renato Guttuso. Pochi anni fa, entrai nella chiesa dedicata a Santa Maddalena vicino al Pantheon. Appena dentro, incontrai il suo viso assorto, mi vide, un lievissimo movimento del volto. Uscì. Mi parve come un’offerta-domanda-presenza a un Mistero. 

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Saper vivere la malattia

Come può la morte aver vinto? La malattia spezza le ossa, si comunica anche allo spirito, ma qualcosa di più potente, puro dono, fiorisce dal marciume dei nostri organi, rinfresca il cuore e l’universo intero. Ricordo le ultime ore, agosto 2004, di un santo curato, don Bruno de Biasio, friulano parroco a Dergano (Milano). Il cancro lo consumava, lo attraversava con i suoi brividi di dolore e di angoscia (non è risparmiata l’angoscia). Nel suo letto diceva «Ah-Ah-Ahve Maria». Il grido soffocato del lamento si trasformava in bacio, senza apparati grandiosi, come credo accadde a santa Teresa del Bambin Gesù 107 anni prima.

In uno scaffale ho trovato un libriccino speditomi da Lugano quindici anni fa da un grande amico. È un “quaderno della Caritas Ticino”. La copertina dice «Mons. Eugenio Corecco, vescovo di Lugano. Sulla malattia e sulla sofferenza». Raccoglie un’intervista alla tv della Svizzera italiana, un dialogo pubblico con domande e risposte con i fedeli della sua diocesi, ma anche non-fedeli, e una lettera sul Natale mentre l’ultima ora stava per scoccare. È leggere queste pagine che mi ha spinto a scrivere quello che ho scritto. Altrimenti il nanetto che sono non avrebbe osato dire che la malattia e la morte sono un dono. Sono una schifezza. Ma c’è una luce che le trasfigura. Non la produce uno sforzo stoico o una rilassatezza zen. Accade. È tramandata da una Presenza divino-umana. 

Annoto qualcosa, anche se so di sciupare. Vescovo Eugenio:

«Chiedo di guarire, ma chiedo soprattutto di saper vivere bene la malattia, perché questo è più importante della guarigione. C’è un salmo che ho letto per 50 anni e non avevo mai scoperto, una frase sulla quale ero passato mille volte, poi improvvisamente ne ho capito la verità profonda: “La Tua grazia è più importante della vita” (Salmo 62)». 

«Avevo quasi paura di domandare»

A un certo punto Corecco dice che quello della malattia e della morte «può essere il tempo più favorevole e questo basta». «La malattia non deve essere nascosta ma vissuta». Ma chiedere di guarire! È così umano, è così giusto! Racconta che una signora gli ha mandato una preghiera di san Gregorio di Nazianzo caduto ammalato. Dice il vescovo Eugenio:

«Immaginatevi cosa voleva dire ammalarsi nel quarto secolo, voleva dire la morte e lo strazio. Dice: “Dammi forza Signore perché ora sono annientato… Signore non abbandonarmi perché voglio ritornare in salute per gridare il tuo nome a tutti”. Io avevo quasi paura di domandare al Signore di guarire: perché privilegiare me mentre tanta gente muore? Ma quando ho letto questa frase ho cominciato a pregare di più perché anch’io ho voglia di continuare ad annunciare».

Be’, sta annunciando ancora, lui che morì poco dopo, nel 1995. La Tua grazia vale più della vita. Ma guarisci!

Tags: Emanuele Macalusomalattiamorterenato farinatempi febbraio 2021
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