La preghiera del mattino
Senza fare i conti con la modernità, i conservatori non possono vincere
Su Formiche Benedetto Ippolito scrive: «Perciò, Roger Scruton ha parlato dell’identità di una nazione come condizione sostanziale del buon funzionamento di un corretto e maturo pluralismo democratico. Per distinguersi e contrapporsi individualmente, senza uccidersi, bisogna, infatti, che i cittadini condividano almeno quell’univoca base specifica di legami e valori spirituali che hanno insieme, al di fuori dei quali non avrebbe senso concorrere liberamente al potere e financo discutere in una riunione di condominio».
In un convegno organizzato da Marcello Pera si è discusso di come il pensiero conservatore debba fondarsi sui concetti di patria e nazione, separandoli nettamente da quello che è stato il fascismo. In questo contesto il richiamo di Ippolito a Scruton e al suo interrogativo su come non si possa fondare uno stato democratico prescindendo dalle basi che solo un’identità nazionale può dargli, senza giustificare né posizioni sciovinistiche e tanto meno razziste, e senza rinunciare a istituzioni sovranazionali che però abbiano un rapporto razionale con una democrazia che non può vivere senza fondamenta. Insomma un conservatorismo che burkianamente dovrebbe innestare l’innovazione nella tradizione.
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Su Huffington Post Italia Stefano Folli scrive: «Il partito conservatore è frenato nell’Unione da troppe contraddizioni. Ma in Italia lo scenario è meno sfavorevole, benché non semplice. Forza Italia si avvia a essere un segmento di questa ancora ipotetica aggregazione. La Lega di Salvini, no: almeno per adesso. In futuro, mai dire mai. Occorre prima verificare la forza elettorale di tutte le forze politiche. Un tempo si diceva che i partiti proiettavano in Europa le loro logiche nazionali. Nel 2024 potrebbe accadere per la prima volta il contrario. Sarà l’Europa a proiettare sui singoli paesi le sue dinamiche. E a decidere se il partito conservatore avrà un senso: se non a Bruxelles, almeno a Roma».
Con il suo abituale acume Folli coglie come il ruolo della Meloni abbia un senso sempre più “europeo” e non solo italiano. Il processo d’integrazione europeo è cresciuto per una lunga fase in parte rilevante grazie alla “necessità” di contrapporsi all’Unione sovietica. Poi ha avuto una svolta negli anni Novanta determinata dall’opportunità che il nuovo mondo post Yalta offriva al Vecchio Continente, anche grazie all’import-export cinese e all’energia russa. Ora i fattori che consentivano uno sviluppo affidato essenzialmente a tecnocrazia e burocrazia, sono in qualche modo entrati in crisi, e il ritorno della politica è imposto dai fatti. Manfred Weber e Giorgia Meloni ragionano su una risposta “conservatrice” a questo ritorno della politica. La sinistra è in difficoltà: i Verdi non hanno ancora una articolata cultura di governo e la socialdemocrazia è in crisi a partire dal suo cuore tradizionalmente tedesco. Il tentativo di Emmanuel Macron di perpetuare una tecnocrazia senza alternative non mi pare che abbia un grande futuro. In Spagna l’abilissimo Pedro Sanchez potrebbe invece formare un governo con gli indipendentisti catalani che fino a qualche mese fa voleva mandare in galera: in qualche modo confermando che la principale carta che gioca oggi la sinistra è quella di una disgregazione governabile poi solo con un ordine essenzialmente tecnocratico. Quelli che cercano di costruire una cornice europea a un programma conservatore mi pare che abbiano diverse carte da giocare.
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Su Atlantico quotidiano Nikola Khedi scrive: «Come esempio dell’efficienza del suo governatorato, insieme alla Camera e al Senato dello Stato, proprio nella recente legislatura ha introdotto il più grande programma di scelta scolastica nella storia americana, vietato l’aborto dopo sei settimane, approvato un taglio delle tasse di 2 miliardi di dollari, rafforzato i diritti sulle armi, vietato le operazioni di cambio di sesso su minori, bloccato le iniziative contro il free speach nelle università, represso l’immigrazione clandestina, ampliato i diritti dei genitori nell’istruzione, e protetto i diritti degli individui contro l’eccessiva portata del governo in collusione con le grandi aziende. Inoltre, ha firmato una carta dei diritti digitali, per proteggere i suoi cittadini dall’eccessiva portata delle grandi compagnie di tecnologia, ha aumentato le pene per lo spaccio di Fentanil, multato le società di carte di credito per aver tracciato gli acquisti di armi dei cittadini, ha reso più facile possedere una casa, ha bandito i punteggi di credito sociale, vietando al governo di prendere in considerazione convinzioni sociali, politiche o ideologiche nella valutazione di potenziali venditori, ha messo fuori legge la valuta digitale della banca centrale e approvato leggi che combattono l’antisemitismo e qualsiasi tipo di discriminazione. Tutti questi concetti di buon senso e ampiamente accettati vengono trasformati in legge in un modo che renderebbe difficile per il prossimo governatore annullarle».
Su Atlantico quotidiano si esamina il progetto conservatore di Ron DeSantis, progetto pieno di idee con alcuni buoni successi locali, che però per divenire efficace su scala federale e non solo in Florida, deve fare i conti con lo stato di un’opinione pubblica moderna non disponibile a mettere in discussione le libertà acquisite nel Secondo dopoguerra. In qualche modo, al di là dei gravi disastri combinati, Donald Trump era riuscito con il suo stile “pop” nell’opera di collegare istanze conservatrici e modernità, per poi fallire tragicamente per mancanza di un’adeguata cultura politica. Anche la lezione spagnola ci parla di questo tema: senza fare i conti con la modernità i conservatori, innanzi tutto quelli radicali, non possono vincere.
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Su Strisciarossa Leonardo Casalino scrive: «Ormai da molto tempo, in realtà, le indagini sociologiche dell’elettorato francese rivelano come vi sia una forte omogeneità tra coloro che votano per la destra repubblicana e coloro che appoggiano Marine Le Pen. Una complementarità in cerca di uno sbocco politico credibile, fondato, da un lato, sulla banalizzazione dell’identità politica della Le Pen, sempre più accreditata di una postura di serietà e che non avendo mai governato non deve giustificare alcun bilancio negativo; e, dall’altro lato, un mutamento della cultura politica del partito dei Républicains, erede della tradizione politica che discende da De Gaulle. La questione dell’immigrazione è il terreno su cui questo processo si manifesta in maniera più chiara. I due capigruppo dei Républicains all’Assemblea Nazionale e al Senato, Olivier Marleix e Bruno Retailleau, hanno nei giorni scorsi presentato un nuovo disegno di legge che, a loro giudizio, vuole essere “un colpo di arresto all’immigrazione di massa”. Le norme proposte vanno dalla definizione di condizioni più dure per l’ottenimento della cittadinanza o di un ricongiungimento familiare, alla riduzione degli aiuti sociali, in particolare per le spese mediche. Ma, soprattutto, sul piano costituzionale colpisce l’affermazione del primato del diritto nazionale su quello europeo per quanto riguarda le questioni migratorie. Si tratta, di fatto, di un allineamento quasi completo alle posizioni dell’estrema destra, un allineamento che naturalmente mette in serio imbarazzo Emmanuel Macron e il suo partito, il quale ha bisogno dei voti dei Républicains per far approvare, senza forzature procedurali, il suo proprio progetto di legge sull’emigrazione. Il quale, anch’esso prevede norme più severe, ma anche, ad esempio, la possibilità di concedere permessi di soggiorno speciali per uomini e donne che accettino di lavorare in determinati settori dell’economia dove occorre nuova manodopera. Alcuni osservatori politici pensano che questa convergenza sui programmi sia la base su cui costruire in futuro un binomio di governo formato da Marine le Pen come Presidente della Repubblica e Laurent Wauquiez come Presidente del Consiglio. Wauquiez, esponente dell’ala destra dei Républicains, è l’attuale Presidente della regione Auvergne-Rhône-Alpes, ed è convinto che intorno ai temi identitari, culturali e politici, sia possibile costruire l’unità politica capace di rappresentare l’omogeneità di un elettorato di destra largamente maggioritario nel paese, in sintonia con quello che sta avvenendo in altri paesi europei. Un progetto politico rafforzato dalla convinzione che, al contrario, a sinistra e più in generale nello schieramento progressista non vi siano la possibilità e la reale volontà di costruire un programma comune e un’alleanza elettorale che lo difenda. L’unità possibile a destra nasce, cioè, da un senso comune diffuso all’interno della società. Esiste un altro senso comune, a sinistra, capace d’imporre ai partiti una strategia unitaria? Il movimento contro la riforma delle pensioni, che ha in programma una nuova giornata di lotta il 6 giugno, saprà crearlo al di là dell’unità sindacale? Sono interrogativi ancora aperti, anche se è difficile almeno per il momento essere troppo ottimisti».
La Le Pen è in grado ancora di commettere errori clamorosi da qui alle prossime presidenziali, ma peraltro anche la sequela dei pacchiani errori macroniani (né gli aiutini che gli offre oggi Nicolas Sarkozy gli saranno molto utili) potrebbe provocare la fine di un Parlamento sempre più boccheggiante. Non è improbabile che nel medio periodo molte delle sorti del conservatorismo europeo, innanzi tutto quello radicale, vengano decise in Francia.
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