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Non le hanno perdonato di essere stata rapita da Boko Haram, detenuta per quasi un anno nella foresta, stuprata più volte dai jihadisti e infine messa incinta. Per questo quando Aisha Umar, 28 anni, è scappata ed è tornata nella sua casa natale di Gwoza, nello Stato settentrionale di Borno, in Nigeria, è dovuta scappare di nuovo.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]«BRUCIO TUO FIGLIO». Un uomo è andato da Aisha e ha minacciato di bruciare Mohammed, il figlio di appena due anni concepito dopo essere stata stuprata da un combattente di Boko Haram: «Se non porti via tuo figlio, lo cospargo di benzina e gli do fuoco fino a che non rimarranno solo le ceneri». Così Aisha, madre di altri tre figli, è dovuta scappare a Madagali, a 22 km di distanza nello Stato di Adamawa, dove vive il fratello.
FIGLI DI BOKO HARAM. «Nessuno voleva giocare con mio figlio», racconta Aisha all’agenzia Reuters. «Lo chiamavano figlio di Boko Haram». L’uomo che ha minacciato di bruciare il bambino ha perso i suoi tre figli per colpa dei jihadisti, ma il suo odio e il desiderio di vendetta si mischiano alla credenza locale secondo la quale un bambino che ha nelle vene sangue jihadista non potrà che diventare jihadista da grande. «Il figlio di un serpente è un serpente», si dice in Nigeria, e anche le donne liberate vengono spesso respinte dai familiari nel timore che siano state indottrinate e radicalizzate da Boko Haram.
IL RAPIMENTO. Aisha come altre migliaia di donne è stata rapita nell’agosto del 2014 dai terroristi islamici, che hanno ucciso il marito sparandogli in testa. La donna è stata portata nella foresta Sambisa, quartier generale dei jihadisti, e sposata a un combattente. Dopo un anno è scappata e ha fatto ritorno al suo villaggio, dove ha scoperto che i tre figli erano vivi, avendo vissuto durante la sua assenza con i vicini.
«MAMMA, PORTALO VIA». Ma i bambini non hanno mai apprezzato il piccolo Mohammed: «La gente ha cominciato a insinuare che il loro fratellino era un bambino di Boko Haram e così non hanno più voluto giocare con lui. La mia figlia più grande mi ha detto un giorno: “Mamma, per favore, riporta questo bambino a suo padre e poi torna da noi”».
CONTINUA LA DISCRIMINAZIONE. Il trasferimento a Madagali non ha posto fine alla discriminazione. I suoi parenti non vogliono neanche toccare Mohammed, che in pubblico viene additato, insultato e tenuto a distanza da tutti. Aisha ha ormai raggiunto il limite della sopportazione, tanto da dichiarare: «Se qualcuno volesse portarsi via mia figlio, sarebbe il benvenuto».
Foto Ansa
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