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Se collassa il Dragone

Così la crisi costringe il regime cinese a fare i conti alla sua maniera con la gigantesca bolla immobiliare che da anni accompagna la crescita forzata del paese. Ma nelle città che si riempiono di grattacieli vuoti qualcosa di nuovo sta fiorendo.

Leone Grotti
23/02/2012 - 12:25
Esteri
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Pubblichiamo il reportage dalla Cina uscito su Tempi n. 47/2011.

I vecchi e i missionari se lo ricordano ancora e lo raccontano non senza una dose di ironia: «Quando i comunisti sono arrivati in Cina, dicevano: “Tra cent’anni tutti saranno ricchi e educati, la gente starà bene”». Lo scorso primo luglio il Partito comunista ha festeggiato il suo 90esimo compleanno: i cinesi miliardari (in yuan), secondo la Banca mondiale, sono circa 100 milioni su una popolazione di un miliardo e 300 milioni di persone, i poveri li superano di gran lunga e la borghesia non esiste. La preoccupazione per le condizioni di vita dei cinesi, se mai c’è stata, è scomparsa da tempo e un capitalismo sfrenato e senza regole ha preso il posto della vecchia ideologia propugnata da Mao. Del comunismo sono rimasti la violenza, un partito attaccato al potere, i libretti rossi smerciati a venti yuan nei mercatini e qualche vecchia canzone nazionalista intonata da gruppi di nostalgici nei parchi di Pechino. «Da fuori, la Cina sembra non essere colpita dalla crisi, ma non è così. Il governo controlla rigidamente tutto ciò che può influire sull’economia e si trova nel bel mezzo di una bolla speculativa immobiliare pronta a esplodere: prima ha lasciato che i prezzi del mattone crescessero senza freno e ora li fa crollare di proposito».

Nell’ultimo trimestre la Cina ha registrato una crescita del Pil del 9,1 per cento, il peggior risultato degli ultimi due anni, eppure, come spiega un analista finanziario che lavora qui da oltre 15 anni, è in crisi. E non c’è bisogno di inoltrarsi nelle famose città fantasma per accorgersene. Quando alle porte di una metropoli come Xi’an o Shanghai ci si sofferma sulle centinaia di grattacieli in costruzione, colonne di cemento in serie, come un moderno esercito di terracotta, circondate dal nulla – niente negozi né strade, solo fango – gli interrogativi sorgono spontanei. È vero che sempre più cinesi dalle campagne dell’Ovest si spostano nei grandi centri urbani. Ma le migliaia di migranti a basso costo, sul cui sfruttamento si basa la fortuna della Cina, non possono permettersi case da migliaia di euro al metro quadrato. Per garantire loro una “sistemazione”, le aziende li ammassano nei container predisposti ai margini dei cantieri. Dati ufficiali non ne esistono, ma si calcola che il 50 per cento degli immobili in costruzione resti vuoto. Il regime, attraverso le banche, continua però a finanziare le aziende statali perché costruiscano, per evitare fallimenti a catena e impedire che i disoccupati superino l’attuale 9 per cento della popolazione. «In Cina il governo ha speso l’equivalente di 563 miliardi di euro per rispondere alla crisi. Ma con lo yuan sempre più forte, le esportazioni verso l’Europa calano del 2 per cento, le imprese chiudono e l’inflazione è salita al 6 per cento».

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Anche il Fondo monetario internazionale teme lo scoppio della bolla immobiliare cinese. Negli ultimi due mesi la prevendita di appartamenti ha subìto un calo drastico: i prezzi sono scesi del 40 per cento a Shanghai, dimezzati a Pechino. Secondo il direttore del colosso Midland Holdings, «negli ultimi due mesi il 30 per cento delle agenzie immobiliari ha chiuso, i licenziati sono migliaia». Ma per il premier Wen Jiabao «è impossibile che la nostra politica immobiliare cambi finché i prezzi non scendono a livelli ragionevoli». Con buona pace di tutti quei cittadini che hanno comprato casa e se la sono ritrovata dimezzata in valore ancora prima di metterci piede.

Sviluppo senza benessere
L’urbanizzazione sfrenata, marchio di fabbrica dello sviluppo cinese, lascia segni ovunque. Città come Pechino, una megalopoli da 25 milioni di abitanti dove chi abita a 30 chilometri da piazza Tiananmen si considera in centro, dove il traffico è una morsa estenuante a qualunque ora, dove le sopraelevate passano a pochi metri dalle finestre, dove interi quartieri sono stati rasi al suolo per fare spazio a immensi stadi olimpici che nessuno utilizza, dove per trovare tracce della millenaria cultura taoista e confuciana, cancellata dalla furia iconoclasta della Rivoluzione culturale, bisogna avventurarsi in finte “città vecchie” ricostruite negli anni Ottanta per i turisti; città come questa mostrano tutto il desiderio del regime di stupire il mondo. Ma a scapito dei cinesi. «Qui si usa dire – spiega l’analista finanziario – che tutto in Cina è enorme, ma se lo dividi per la popolazione totale diventa piccolo piccolo. La Cina produce il 20 per cento del Pil mondiale, ma la gente comune non gode dello sviluppo del paese. Nonostante questa sia la seconda potenza economica dietro gli Stati Uniti, secondo i dati del Fmi, il Pil pro capite è pari a 7.500 dollari l’anno, il 94esimo del mondo, contro i 46 mila degli Stati Uniti o i 27 mila dell’Italia». A completare il quadro ci sono «gli investimenti esteri che subiranno presto un calo: la Cina ha cominciato a danneggiare di proposito le aziende estere per far crescere il mercato interno». Un processo che però sarà lungo e difficile. Secondo una ricerca del South China Morning Post, le imprese private, che costituiscono il 30 per cento del totale ma producono il 70 per cento del Pil, quasi non ricevono aiuti dal governo. E mentre fonti cattoliche ben informate sostengono che «chi prenderà il posto di Hu Jintao e Wen Jiabao nel 2013 (con ogni probabilità Xi Jinping e Li Keqiang) concederà maggiore libertà», l’unica cosa certa per ora è che «il Partito vuole solo “atterraggi morbidi”. Perciò, a fronte delle crescenti proteste della popolazione, aumenta anche la repressione», soprattutto verso chi si lamenta per le terre espropriate ai cristiani.

«Tra cent’anni nessuno avrà più bisogno di Dio», promise fieramente il regime comunista. Ma dopo trent’anni di ateismo e altrettanti di repressione e materialismo, la religiosità dei cinesi vive una nuova primavera. Secondo una ricerca il 60 per cento degli studenti universitari è interessato al cristianesimo. I cattolici in Cina non sono neanche l’1 per cento della popolazione, ma, come spiega un’importante figura cattolica, la «Chiesa cinese è molto missionaria, l’80 per cento dei fedeli va a Messa e invita i colleghi di lavoro, che accettano perché si stupiscono nel vedere persone felici».

La rinascita religiosa
Alla Nantang, la “Cattedrale meridionale” di Pechino, dove si battezzano 600 persone all’anno, alla domenica sera è quasi impossibile trovare un posto a sedere. Ci sono cattolici, catecumeni e moltissimi atei. Vengono a vedere, per semplice curiosità o perché sanno che «c’è un prete molto particolare». E non hanno tutti i torti. Quando arriva il momento della predica il sacerdote si lancia in uno “show” che strappa risate e applausi ai fedeli. Ma in tanti si commuovono quando il don ricorda: «Mi sono convertito dal buddismo perché per il cattolicesimo la salvezza non è qualcosa che devi raggiungere con uno sforzo, prima di tutto c’è un intervento della Grazia a cui aderire». La comunione è un momento che sembra non avere fine, tanta è la gente che partecipa, e insieme a una quantità di giovani da fare invidia a qualunque chiesa d’Europa, si mettono in fila anche vecchi che hanno vissuto sulla propria pelle i tentativi del Partito di eliminare la Chiesa cattolica prima, e di dividerla poi, costringendo i sacerdoti a iscriversi all’Associazione patriottica e a seguire l’autorità del governo, obbligando molti fedeli a coltivare la fede in casa invece che in pubblico. Da quando nel 2007, però, Benedetto XVI ha scritto al popolo cattolico cinese senza distinguere tra Chiesa ufficiale e sotterranea, invitando alla riconciliazione e al perdono reciproco delle due comunità, pur continuando a denunciare l’Associazione patriottica che mira a sostituirsi al Papa, considerato un leader politico a capo di una potenza straniera, la situazione è cambiata. In meglio. «Penso che la linea della Santa Sede sia quella giusta», commenta un importante esponente della Chiesa cattolica. «È vero che la scomunica di due vescovi “patriottici” avvenuta a luglio ha fatto aumentare i controlli del governo e il rischio di perdere quelli più vicini all’Ap, ma è vero anche che con una linea più morbida si rischia di smarrire tutto il popolo cattolico. Che ora invece sa dove guardare». È addirittura in corso il tentativo di beatificare Matteo Ricci, l’evangelizzatore della Cina moderna, e il suo primo convertito, il dottor Paolo Xu Guangqi. «Il governo però si è messo di traverso, dice che non è il momento».

Ma non cresce solo la Chiesa. Anche i templi buddisti sono pieni di fedeli e si stima che il 50 per cento dei cinesi vada a bruciare l’incenso una volta all’anno. Tra questi c’è anche qualche figlio della Rivoluzione culturale. Uno di loro racconta: «Secondo il governo, l’80 per cento della nostra generazione è atea. Io lo sono. Eppure vengo al tempio una o due volte all’anno. Non so perché. In qualche modo sento il bisogno di comunicare con il divino». Dalla persecuzione e dal dolore rinasce la religiosità dei cinesi. Proprio come un fiore di loto cresce e si colora di bianco pur affondando le radici nel fango.

Tags: Chiesa e CinaCinacrisi economicapechinoreportage
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