Mia mamma è già lì in posizione che aspetta. Lo è ormai da parecchio tempo: armata di ago e lino, pronta a cucir fior di tende. E io non le ho confessato ancora che c’è poco da imbastire. Se vuole confezionar drappi per le finestre degli appartamenti che lasceremo in dote ai nostri tre figli, dovrà aspettare ancora un bel po’. Difatti, fino ad oggi, abbiamo accantonato ben poco: con quel che stiamo mettendo da parte – mio marito e io – tra un paio di lustri forse potremo permetterci giusto un seminterrato nei sobborghi di Casalpusterlengo-vista-tangenziale. Non è che siamo contro l’accumulo a priori, sia chiaro. È che abbiamo deciso di spendere i nostri guadagni innanzitutto nell’istruzione dei figli. Chiamiamola diversificazione di portafoglio.
Ormai siamo in ballo da dodici anni. Fatti due conti, salta fuori che – se avessimo spiaggiati i tre scolari alla statale di zona – a quest’ora una multiproprietà a Tenerife non ce levava nessuno. Ma tant’è. Adesso pare però che i fatti mi diano ragione. Da un recente studio è infatti saltato fuori che investire nell’istruzione conviene. Per dirne una: la laurea rende anche sedici volte di più dell’investimento nel mattone. La carta vince il sasso; come nella morra cinese. Ma qui parliamo di futuri giovani lavoratori e del loro stipendio a un anno dalla laurea, nel senso che i guadagni raggiunti già poco dopo il diploma riscattano abbondantemente i costi per conseguirlo. Per fare un esempio, il 52% è il rendimento annuo di una laurea Bocconi, contro il 4% del reddito di un appartamento alla periferia di Milano.
Tra l’altro devo anche spiegare a mia madre che lasciare in dote ai tre figli un immobile ciascuno sarebbe per noi praticamente impossibile: stante le risorse, dovrebbero comunque condividere un quadrilocale a città studi. A uno di loro spetterebbe la camera grande e mezza cucina, all’altro il salotto e il bagno… Quando ho domandato alla mia figlia più grande se preferisse una borsa Erasmus o un vano sottoscala non ha avuto dubbi: sei mesi in metà sottotetto alla periferia di Parigi ai suoi occhi assetati d’esperienza non hanno prezzo.
So già comunque cosa ribatterà mia mamma: che il mio è tutto un discorso teorico. Se poi il lavoro non lo troveranno? Ecco che noi – genitori inavveduti – ci guadagneremo una bella fregatura: avremo allevato tre sapientoni senza tetto. Capaci sulla carta di collaudare un ponte sospeso e con la prospettiva di viverci sotto. Ma io sono ottimista. Che l’economia riparta, e con essa decollino anche loro: “Allo stesso costo di un paio di rate-Tasi, li dotiamo di un biglietto per un qualche stage all’estero. Esentasse”, ha esordito un mese fa mio marito brandendo un F24 fresco di stampa e perplessità. Certo, si dovranno dar da fare. Ma diamine: tre anni di imposta sui rifiuti varranno pur un corso di spagnolo. E se devo sceglier se saldare le spese per l’istallazione del cancello automatico o un corso d’aggiornamento, al diavolo il telecomando in tasca: che le porte se le aprano da soli.
Mamma, so bene che è una scommessa, ma te lo dico francamente: se ogni cinque anni devo sborsare due stipendi per il rifacimento-terrazzi di un ipotetico quarto piano da lasciar loro in eredità, preferisco immaginare i miei ragazzi affacciati ad ammirare il mondo, foss’anche per otto settimane cadauno.
So che così li priverò di qualcosa. A ventiquattro anni potranno infatti contare solo su di uno zaino di esperienze, e nessuna mattonella di comoda proprietà su cui ogni mattina poggiare i piedi. Io, d’altra parte, rimarrò solo con la speranza di averli cresciuti forti di una buona testa sulle spalle. Mentre la terra sotto i piedi – ne son certa – se la conquisteranno.
E a quel punto, ovunque sarà quella terra, la nonna – abbi fiducia – lì sarà la benvenuta.