«Che Dio abbia pietà di lui perché noi, di certo, non possiamo averne alcuna». Ha detto così ieri nell’aula di tribunale il pm responsabile della requisitoria contro il comandante Francesco Schettino, per il quale sono stati chiesti ventisei anni di carcere per il naufragio della Costa Concordia all’Isola del Giglio il 13 gennaio 2012 in cui persero la vita 32 persone. Si può non avere alcuna simpatia per il capitano, si può pensare che egli si meriti una simile pena (anche se i suoi legali si sono lamentati perché è stato trattato «come Pacciani»), si può, insomma, pensarla un po’ come si vuole, ma non può non suonare esagerata, incongrua e vergognosa una requisitoria che arrivi a definire l’imputato un «incauto idiota». Di grazia, ma come può un magistrato esprimersi in questo modo? Ha egli il compito di verificare la dinamica dei fatti, cercare prove a sostegno della colpevolezza (e, ricordiamocelo, pure dell’innocenza) dell’imputato oppure quello di esprimere giudizi morali su di lui?
ANNULLAMENTO DEL REO. Scrive giustamente oggi Il Foglio che è sbalorditivo come in «un’aula di tribunale, prima ancora di una sentenza di condanna, ci si possa lasciare andare a commenti buoni forse per una pièce teatrale, per uno sceneggiato televisivo, a favor di telecamera». Anche Goffredo Buccini sul Corriere della Sera è rimasto allibito dai commenti del procuratore di Grosseto che segnalano un «quid pluris, quel qualcosa in più e di non dovuto, che i pm toscani hanno sentito il bisogno di dire contro l’imputato». Dargli dell’«idiota», tirare in ballo Dio, la pietà che non può essere concessa al mostro, che c’entra? «Un siffatto apparato dialettico – scrive Buccini – sembra travalicare alquanto l’obiettivo della condanna, e dunque della giusta rivalsa dello Stato sul reo, prefigurando l’annullamento del reo medesimo, un’umiliazione giuridica».
ODIO SENZA PARI. D’altronde la vicenda, sin dal principio, è stata raccontata con un carico di emotività eccessivo. Comprensibile, vista la dinamica dei fatti e la terribile morte di tante persone. Ma il tutto è avvenuto anche all’insegna di un certo manicheismo intellettuale che ha portato a riversare sulla sgangherata figura di Schettino un odio senza pari (lo notammo già allora, grazie al prezioso contributo dello psichiatra Eugenio Borgna). Che tutto ciò – dopo la mitizzazione del capitano De Falco, i cartoni taiwanesi sul comandante codardo, le magliette con la scritta «torni a bordo, cazzo» – entri nella requisitoria di un pm, che si fa voce impropria della catarsi collettiva sulla pelle del reo, è assurdo.
Anche il capitano Schettino ha diritto a un giusto processo. Siamo o no uno stato di diritto, che valuta le colpe e commina pene a prescindere dalla caratura morale degli imputati, ma basandosi sui fatti accertati? Perché delle due, l’una: o si dimostra, all’interno di un processo, che il capitano è responsabile a causa dei suoi atti della tragica morte di trentadue persone; oppure tanto vale, una volta deciso in base al senso comune che è un «idiota», un pavido, un uomo immeritevole di perdono, mandarlo in galera per trent’anni senza nemmeno la necessità di concedergli una difesa e un regolare processo. In alcuni paesi si fa così. Si spera non in Italia, non ancora.