Si era parlato di Riccardo Luna, già direttore di Wired, poi di Luca Sofri (Il Post). Passando per Lilly Gruber e Concita De Gregorio, anche perché Arianna Huffington, presidente e direttore di The Huffington Post Media Group, aveva detto di preferire una donna. Dopo mesi di indiscrezioni, forse l’ultimo nome trapelato potrebbe essere quello buono: sarebbe Lucia Annunziata la candidata più probabile alla direzione dell’Huffington Post made in Italy, la versione italiana di uno dei più importanti siti web americani di informazione, che conta 36 milioni di visitatori unici al mese. È il quotidiano Italia Oggi a tornare sulle voci che circolano in seguito all’annuncio (il 19 gennaio scorso) della joint venture con il gruppo editoriale l’Espresso. Già nel corso del 2011, l’Huffington Post aveva lanciato le sue prime versioni internazionali in Canada e Inghilterra. A ottobre la nascita dell’edizione francese, in collaborazione con Le Monde, mentre a dicembre è stata la volta di quella spagnola, in collaborazione con El Pais.
Il blog nasce nel 2005, come aggregatore di notizie: spazia dalla politica all’intrattenimento, puntando molto sulla quantità di visite. Per la scelta dei titoli degli articoli, per esempio, il sito utilizza un sistema per il quale vengono visualizzate due diverse versioni contemporaneamente. Dopo qualche minuto di sperimentazione, il software sceglie quello che ha attirato più visitatori (un metodo che il “Nieman Journalism Lab” ha definito “diabolicamente brillante”). La Huffington, ex moglie di un senatore americano repubblicano, fonda un’azienda editoriale composta da un pugno di imprenditori, una ventina di giornalisti a comporre la redazione e centinaia di blogger che offrono gratuitamente il loro contributo in cambio di un po’ di visibilità. Sono loro lo zoccolo duro che rende la macchina concorrenziale. Complici le elezioni presidenziali del 2008, il numero di utenti cresce in modo esponenziale, e nel 2011 viene superato il numero di utenti unici del New York Times.
Cosa c’è alla base di un modello in grado di macinare 100 milioni di dollari di fatturato? Un ragionamento elementare: «La gente non vuole soltanto avere delle notizie: vuole condividerle, migliorarle e contribuire a integrarle con altre informazioni». Questo passaggio si ottiene con un grosso volume di contenuti in parte ripresi da altre testate e in parte prodotti autonomamente. I visitatori commentano e interagiscono con la redazione, che sfrutta al meglio le potenzialità dei social network. Le grane sono arrivate qualche mese dopo, quando una delle più importanti aziende editoriali del pianeta, l’ America On Line (Aol), ha acquistato la piattaforma per 315 milioni di dollari. Il genio della rete ha vestito i panni della donna d’affari e, subito dopo l’acquisizione, miss Huffington ha inviato un’email ai suoi collaboratori: «I vostri post avranno un impatto ancora maggiore sulla conversazione globale e locale. Questo è l’unico vero cambiamento che noterete: più persone leggeranno quello che scrivete».
I blogger, però, l’hanno accusata di sfruttamento e di aver guadagnato sulla loro pelle. Molte penne sono emigrate verso lidi migliori, in particolare Michael Arrington, il fondatore del seguitissimo blog tecnologico Techcrunch, anch’esso acquistato successivamente da Aol. Dopo la cessione, in molti si sono chiesti se le testata non sia diventata molto diversa da quella «stampa manipolata dalla politica» contro cui la Huffington si è più volte scagliata. In America alcuni blogger hanno chiesto 105 milioni di dollari di risarcimento: «Per farvi un’idea del modello di business dell’Huff Po – ha scritto Tim Rutten del Los Angeles Times – immaginate una galera con schiavi ai remi e pirati al timone». Chissà se anche in Arianna troverà degli “schiavi” disposti a remare per lei?