
Salvare la politica ambientale dalla politica industriale

Quella che Corrado Clini chiama «inversione delle priorità» nelle politiche climatiche europee nasce, in realtà, da un duplice difetto di visuale: di fronte alla sfida della decarbonizzazione, l’Unione europea ha fatto (e fa) fatica a mettere a fuoco il problema sia nella sua dimensione di breve termine, sia in quella di lungo termine.
Nel breve termine, Bruxelles ha sopravvalutato tanto il proprio ruolo quanto la propria capacità innovativa. L’unilateralismo climatico europeo nasce negli anni Novanta, quando l’Ue produceva il 15 per cento delle emissioni complessive e aveva emissioni pro capite circa doppie rispetto alla media globale. In quel momento, l’Unione si è illusa di poter forzare la mano ponendosi alla guida di una trasformazione su vasta scala. Le cose sono andate diversamente: l’Europa ha messo in atto politiche aggressive e ha (finora) pienamente raggiunto gli obiettivi, ma nel frattempo il mondo è cambiato in senso opposto a quello atteso, e in maniera perlopiù imprevedibile. Oggi il successo europeo ci ha reso una economia marginale nella produzione delle emissioni globali (che dipendono da noi per meno del 7 per cento), mentre su basi pro capite un europeo emette poco più della media globale, meno di un cinese e molto meno di un americano. Quindi, ci siamo trovati a proclamare la nostra leadership proprio nel momento in cui constatavamo l’assenza di follower. Non nel senso che altri paesi non si pongano il problema del clima – lo fanno praticamente tutti, inclusi Pechino e Washington – ma nel senso che seguono criteri e obiettivi che non necessariamente coincidono coi nostri.
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