Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Ho avuto modo di discutere con una ragazza algerina dei recenti attentati di Parigi; mi ha raccontato due dialoghi con i suoi familiari. All’indomani della strage di Charlie Hebdo e del supermercato ebraico ha chiesto ai genitori: È giusto? Sì, le hanno risposto, perché i nemici del Profeta devono pagare con la morte. Alla stessa domanda posta ai medesimi interlocutori dopo il 13 novembre, la risposta è stata: No, perché non è giusto colpire così, alla cieca.
Gilles Kepel, che studia da anni il terrorismo di matrice islamica, ha avanzato l’ipotesi che i primi a considerare un errore gli attentati di Parigi, in cui, tra l’altro, si contano non poche vittime di fede islamica, siano stati proprio gli uomini del Califfato, almeno a giudicare dalle motivazioni generiche con cui ne hanno rivendicato la responsabilità. Tuttavia resta il fatto che un gruppo composito di assassini, alcuni dei quali ben addestrati, ha deciso di compiere un eccidio di questo tipo, colpendo, come si dice, nel mucchio.
Qualche giorno fa, intervistato dal Corriere della Sera, l’autorevole orientalista Olivier Roy ha detto che alla radice del jihadismo europeo non ci sono né l’emarginazione né la rabbia per ferite non rimarginate, come ad esempio il problema palestinese; piuttosto è il nichilismo, «la rivolta radicale e totale», la ragione di queste e altre stragi (Roy cita Columbine negli Stati Uniti e la Norvegia; noi potremmo aggiungere all’elenco anche i fatti di San Bernardino) che «in Europa prende la forma del jihadismo tra alcuni musulmani di origine o convertiti». In questo senso lo studioso francese propone di parlare non di «radicalizzazione dell’islam», ma di «islamizzazione del radicalismo». Un ulteriore movente per questa evoluzione del terrorismo sarebbe rappresentato da una crisi generazionale nel mondo musulmano che vive nel nostro continente. Dice Roy: «I futuri terroristi a un certo punto lasciano l’islam dei padri e vivono all’occidentale, si dedicano al rap, bevono alcol, fumano spinelli, e poi all’improvviso cambiano, si lasciano crescere la barba, diventano islamisti, integralisti. Sempre in contrapposizione ai padri».
Il nichilismo, in verità oggi per nulla dolce, toccherebbe in questo modo un nuovo feroce traguardo nel suo precipitare dalle altezze delle filosofie del niente, più o meno sofisticate, per depositarsi non solo, come avviene da tempo, nei riti senza senso della nostrana borghesia narcisista (il rap, l’alcol e gli spinelli di cui sopra), ma anche nella disumana a-liturgia degli uomini bomba, che prendono alla lettera la nostra credenza del nulla, fino a realizzarla e sbatterla rabbiosamente sotto i nostri occhi sbigottiti. Ma il nichilismo non può che risolversi in sudditanza al potere, della disumanità meccanica della storia o della natura. I nichilisti riducono a nulla, per punirlo, il vuoto fantoccio dalle mille braccia che domina le società per sostituirlo con un altro fantoccio da servire.
Del potere racconta, in maniera bizzarra ma efficace, Il rinoceronte di Ionesco, messo in scena giusto un decennio prima dell’esplosione di quella ribellione radicale ai padri, a lungo covata nelle viscere profonde del secolo trascorso, che fu il Sessantotto occidentale. La tranquilla routine domenicale di un paese della provincia francese (un caso?) viene interrotta dall’irruzione improvvisa di un rinoceronte che semina panico e sgomento tra la popolazione. Il fatto tronca tra l’altro la lezione di vita che Jean, solido cultore della morale borghese, sta impartendo a Berenger, impiegato negligente e uomo disordinato, ubriacone, spettinato, malvestito, senza cappello e cravatta: «L’uomo superiore è colui che sa compiere il proprio dovere»; «Sono forte, sono forte per diverse ragioni. Prima di tutto, sono forte perché sono forte. Secondariamente, sono forte perché ho della forza morale. Poi mi sento forte perché non sono alcolizzato»; «Mio caro, lei non è vivo perché non pensa. Pensi e vivrà: cogito, ergo sum»; e via di questo passo. Il fatto è che, uno dopo l’altro, tutti finiscono per subire il fascino del rinoceronte; e chi cede ad esso diventa egli stesso rinoceronte. L’animale, infatti, ha il fascino della forza, è pura potenza della natura, energia instancabile, senza limitazioni, per quanto condannato all’estinzione.
Una parte del meccanismo
Cosa finisce per diventare la natura, quando la si libera dal fastidio, dall’ingombro della consapevolezza e della libertà, quelle caratteristiche che precisamente impediscono all’uomo di considerarsi la risultanza effimera di un processo confinato entro i limiti della natura o della storia mortale? Un concentrato di istinto, una parte inanimata del meccanismo, plasmata dalle forze che si scatenano nel caotico tumulto della smania di autoaffermazione che le caratterizza. Dove finisce l’uomo, quello di cui dice san Giovanni nella sua prima lettera? «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui».
Tutti rinoceronti: il filosofo perso nei suoi sofismi, il solerte capoufficio, il materialista rivoluzionario, le cui ultime parole umane sono state: «Bisogna seguire il proprio tempo!». E l’impiegato remissivo, le pubbliche autorità, il cardinale di Retz, la gente… E finanche le due persone più vicine al nostro Berenger: l’amico moralista Jean e l’amata Daisy.
Ecco il primo, di cui ricordiamo ancora le parole con cui rimproverava l’inaffidabile Berenger: «La morale! Gliela raccomando, la morale! Ne ho abbastanza della morale; bella roba! Dobbiamo andare oltre la morale! (…) Dobbiamo ricostruire le basi della nostra esistenza… dobbiamo ritornare ai primordi. (…) Demoliamo tutto quanto, staremo meglio! (…) L’uomo! Non dica più questa parola! (…) L’umanesimo è finito! (…) Apra le orecchie! Ho detto: Perché non essere un rinoceronte? Mi piacciono i cambiamenti».
Infine, contemplando estasiata il branco di rinoceronti, sentiamo la cara Daisy: «Guarda! Sono loro l’umanità! Sono così allegri… si sentono così bene nella loro pelle! Non hanno affatto l’aria di essere pazzi. Sono normalissimi. E hanno tutte le ragioni. (…) Non esiste la ragione assoluta. La ragione è sempre della maggioranza, noi non contiamo niente! (…) Mi vergogno un poco di questo cosiddetto amore… questo sentimento morboso, questa debolezza dell’uomo. E anche della donna. Come puoi paragonarlo con l’ardore, la straordinaria energia che emana da questi esseri che ci circondano?».
Il testimone dell’Essere
Rimane solo il povero, imperfetto, immorale Berenger, che resiste alla tentazione, imbraccia il fucile per la sua ultima battaglia e urla: «Contro tutti quanti mi difenderò, contro tutti quanti! Sono l’ultimo uomo e lo resterò fino alla fine! Io non mi arrendo! Non mi arrendo!». Chi potrà salvarlo dalla inevitabile sconfitta che lo attende, nel lodevole intento della sua lotta?
Contro il nulla, l’essere; contro il vuoto, Dio. Al testimone del nulla si contrappone il testimone dell’Essere.
Ps. Pochi giorni dopo i fatti di Parigi, le stragi per le strade, allo stadio, al Bataclan, alcuni studenti liceali hanno proposto ai loro compagni uno scritto. Forse vale la pena ascoltarli:
«Gli attentati di Parigi hanno preceduto di due giorni l’inizio dell’Avvento ambrosiano. L’Avvento è il periodo in cui si attende la venuta di Dio. Ma chi è Dio?
Da una parte ci sono uomini che dicono di uccidere in nome di Dio. Dall’altra parte c’è un mondo, il nostro, che, come scrive Eliot, “ha abbandonato Dio non per altri dei, ma per nessun dio”, ritenendo, contro ogni evidenza della ragione, che l’uomo basti a se stesso. Dio è infatti sentito da molti come nemico dell’uomo e della sua libertà, e i fatti di Parigi sembrano confermarlo.
Domenica, invece, un popolo ha intonato canti nell’Attesa del significato tangibile del mondo, la Verità che viene incontro a noi. Chi è il Dio che attendiamo noi?
È il Dio che si è rivelato facendosi uomo: in Lui noi vediamo il compimento di quello di cui abbiamo bisogno, di ciò che riconosciamo vero, buono, bello e perciò caro. In Lui, presente nel popolo che da Lui è nato, la Chiesa, vediamo realizzato ciò che desideriamo essere. Per questo Lo seguiamo. Per questo Lo attendiamo».
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