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Rigopiano e l’idea «spaventosa» che un’assoluzione sia «il naufragio della giustizia»

«Massimo rispetto» per il dolore delle famiglie, non per il ghigliottinismo di Salvini e media per cui «non esistono accuse infondate: se ci sono degli imputati, devono esserci dei condannati. Siamo alla negazione del processo penale», ribadisce l'avvocato Caiazza

Caterina Giojelli
01/03/2023 - 15:32
Giustizia
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Per il dolore irreparabile delle famiglie «nutro il massimo rispetto», ma il ghigliottinismo alimentato da media e politica sulla tragedia di Rigopiano è altra faccenda: «Così i processi diventano rischiosi», ribadisce a Tempi il presidente dell’Unione delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza, «rischiano di non affrontare il merito delle questioni per ricercare – a tutti i costi – una risposta sanzionatoria che risarcisca il più possibile le persone, i parenti delle vittime, del loro dolore. Ma questo può essere l’esito, non l’obiettivo del processo penale. Altrimenti diventa la sua negazione».

Un rischio corso dalla processo di Rigopiano fin dall’inizio, «quando abbiamo capito che il ragionamento accusatorio della procura di Pescara era fortemente condizionato dal clima emotivo e dall’onere di rispondere alla richiesta di giustizia delle parti civili».

Rigopiano, per i media cinque colpevoli significa «senza colpevoli»

I fatti sono noti: il 18 febbraio 2017 veniva giù l’hotel Rigopiano, investito da quattro scosse di terremoto, una tempesta di neve, una micidiale slavina «con la pressione di 4 mila tir a pieno carico», spiegarono gli esperti. E il 19 febbraio, quando ancora dal resort non proveniva voce umana (il bilancio sarebbe stato di 29 morti e 11 sopravvissuti), il Corriere in prima pagina formulava già la prima delle accuse che si sarebbero moltiplicate nei giorni e mesi a successivi: «Forse lì non doveva nemmeno esserci un albergo. Dove sorgeva il resort a quattro stelle abbattuto da quella terribile valanga c’era un tempo soltanto un casolare», scriveva nell’editoriale Sergio Rizzo ricordando un «processo chiuso senza colpevoli» un anno prima proprio lì, nel comune di Farindola, un’indagine giudiziaria che coinvolse funzionari e imprenditori per occupazione abusiva di suolo pubblico finita «con l’assoluzione di tutti gli imputati “perché il fatto non sussiste”». Ma il marchio dell’infamia era stato gettato.

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Sono passati sei anni e “Rigopiano, strage senza colpevoli” è oggi il titolo dei giornali, Repubblica in testa, che hanno descritto la rivolta in Aula Pinotti Aielli, mentre il giudice Gianluca Sarandrea leggeva la sentenza: “solo” cinque condannati su trenta imputati (29 persone e una società accusati a vario titolo dei reati di disastro colposo, omicidio plurimo colposo, lesioni, falso, depistaggio e abusi edilizi), “solo” 10 anni e 4 mesi di condanne a fronte dei 151 anni e qualche mese richiesti dalla procura. Telecamere e microfoni non hanno perso un grido di rabbia e dolore dei familiari delle vittime scatenati contro il giudice – venduto, vergognati, hai creato tu tutto questo, ingiustizia è stata fatta, assassini, fate schifo, bastardo, devi morire, non finisce qui –, non un appello dei parenti usciti dall’Aula e rivolti “all’opinione pubblica” – «non credete a questa giustizia» e «ribellatevi».

L’idea «spaventosa» che un’assoluzione sia «il naufragio della giustizia»

A rincarare la dose ci aveva pensato il leader della Lega, Matteo Salvini, sui social: «29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è “giustizia”, questa è una vergogna». E la risposta di Caiazza, avvocato difensore di uno degli assolti – l’allora Prefetto di Pescara Francesco Provolo per il quale la procura aveva chiesto la pena più alta, 12 anni – non si era fatta attendere. Alcuni stralci dalla lettera aperta al ministro:

«Dobbiamo dedurne – mi corregga se sbaglio – che, dati, per dire, 30 imputati, maggiore è il numero dei condannati, più saremo rassicurati che giustizia è stata fatta. All’inverso, più cresce il numero degli assolti, più cresce la vergogna (…) È una idea che trova proseliti, visto che leggo oggi sulla gran parte dei giornali che la vicenda si sarebbe conclusa senza individuazione di alcun responsabile; il che è semplicemente falso. Lei comprende benissimo che questa stravagante (ed allarmante) idea ne presuppone un’altra, davvero spaventosa: e cioè che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, e la condanna il suo trionfo».

E ancora:

«Occorre ammettere, signor Ministro, che è questa l’idea più in voga nella pubblica opinione, nei bar come sui social o nei talk-show televisivi. A nessuno viene in mente, nemmeno per un attimo, che un’accusa possa essere infondata (e che un innocente ne risulti maciullato nella sua vita professionale, nella sua dignità, nei suoi affetti): se ci sono degli imputati, devono esserci dei condannati. (…) L’implicazione successiva di questo modo di ragionare, che è evidentemente il Suo signor Ministro, è che il buon giudice sia colui che fa proprie le idee della Pubblica Accusa. Il giudice sta lì non per valutare se l’Accusa sia fondata, ma per asseverarla incondizionatamente. Lei pensa questo, Ministro Salvini?».

Salvini e la logica del taglione

La risposta di Salvini, un lungo post sul suo «concetto molto semplice, molto umano di giustizia» basato sulla «sproporzione fra quanto era accaduto e quanto la giustizia aveva prodotto a sei anni da quell’immane tragedia», – «da una parte, 29 morti per un evento che, a detta di tutti gli esperti interpellati, poteva ampiamente essere previsto e quindi evitato. Dall’altra parte, una maggioranza schiacciante di assoluzioni, e pochi condannati, con pene corrispondenti a quelle di reati comuni di lieve entità» –, resta emblematica dei rischi denunciati da Caiazza. Se ci sono vittime ci sono colpevoli, e se la procura li individua negli imputati, allora chiunque finirà alla sbarra sarà colpevole. Non è questo il prefetto Provolo agli occhi della gente, un colpevole che l’ha fatta franca, per usare l’ormai idiomatica espressione dell’ex magistrato Piercamillo Davigo?

Dice Salvini di aver provato «sollievo» nel sapere che la procura di Pescara aveva aperto un’inchiesta, «30 indagati per reati come disastro colposo, omicidio plurimo colposo, lesioni, falso, depistaggio e abusi edilizi», e poi «rabbia» e «delusione» all’emissione della sentenza. Le motivazioni usciranno entro tre mesi, la procura ha annunciato appello, legali e familiari delle vittime agitano il fantasma dell’Aquila (a novembre 2022 il tribunale ha stabilito che alle tragedie sono anche colpa del comportamento imprudente delle vittime) e denunciano che un Rigopiano bis non sarà mai possibile, «dopo una sentenza del genere a cosa serve l’appello?».

Verità processuale e vergogna

C’è chi lamenta anche i tempi scandalosi dei processi, «ma questo è uno scandalo che è proprio della giustizia penale in Italia, non del caso di Rigopiano – sottolinea a Tempi Caiazza –, un processo che si è celebrato con rito abbreviato per scelta degli imputati, altrimenti saremmo ancora alle fasi iniziali del dibattimento».

Il rito abbreviato è stato condizionato all’espletamento di una perizia richiesta del giudice per dirimere la questione riguardante l’origine della valanga del 18 gennaio, in quanto gli accertamenti peritali prodotti dall’accusa e dalle difese «erano tra loro contrapposte. Detto questo», conclude Caiazza, «ribadisco che anche il tempo trascorso dal rinvio a giudizio alla sentenza non è stato un tema del processo: il tema era solo uno, quanto fondata fosse la tesi accusatoria costruita negli anni sulla tragedia di Rigopiano. Accertare se gli imputati avessero commesso il fatto e si vi fosse la prova che l’avessero commesso. E nel caso di responsabili, fare loro carico, oltre della pena, di risarcire le persone offese». Non fare di gogna mediatica verità processuale, nemmeno stabilire un parametro minimo del numero di assolti e dei condannati oltre il quale titolare sui giornali o gridare dai social «vergogna».

Tags: Gian Domenico CaiazzagiustizialismoMatteo Salvinirigopiano
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