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Home Chiesa

«Riaprire le Messe. La libertà religiosa non è un bonus per chi fa il bravo»

Roberto Colombo, sacerdote e scienziato esperto di coronavirus: «La Chiesa è pronta a celebrare cum populo. Le "domande ultime" dei cittadini sono le prime di cui si deve occupare uno Stato laico»

Pietro Piccinini
28/04/2020 - 3:00
Chiesa
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Monsignor Spina celebra Messa senza popolo ad Ancona durante l'emergenza coronavirus

Sull’esclusione delle Messe dalla cosiddetta “fase 2” di riapertura del paese dopo l’interminabile lockdown per l’emergenza coronavirus, si sta consumando un sorprendente scontro frontale fra il governo Conte e la Cei. Sorprendente perché per tutta la prima parte di “quarantena nazionale”, vescovi e sacerdoti italiani invece hanno sempre mantenuto un atteggiamento di massima collaborazione con le autorità civili, perfino aiutando i cattolici più “accesi” ad accettare l’enormità del sacrificio imposto dall’esecutivo: la rinuncia alla partecipazione fisica ai sacramenti.

Dopo il duro comunicato con cui la Cei ha voluto far sapere a Giuseppe Conte e al suo Comitato tecnico-scientifico che «la Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale», il premier ha promesso al più presto «un protocollo per consentire ai fedeli di partecipare a cerimonie religiose in massima sicurezza». O meglio, «un percorso» da definire con la Cei. Anche se in realtà una fitta trattativa per la riapertura al popolo delle Messe («interlocuzione» la chiamano i vescovi nella nota) c’era già stata tra i rappresentanti della Chiesa e l’esecutivo nelle settimane scorse. Poi, domenica sera, la delusione, servita ai cattolici in diretta tv da Conte. Anche per questo probabilmente la Cei ha deciso di farsi sentire.

Abbiamo chiesto un commento a don Roberto Colombo, che oltre a essere un sacerdote è anche un autorevole ricercatore e docente della facoltà di Medicina dell’Università cattolica, e fin dall’inizio della pandemia, come sanno i lettori di Tempi, segue con rigore accademico l’evoluzione delle conoscenze scientifiche sul coronavirus e il Covid-19.

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Don Colombo, come commenta la decisione del governo di prolungare, di fatto sine die, il divieto per le celebrazioni religiose, comprese le Messe coram populo? Si tratta, come protesta la Cei, di un fatto che «compromette l’esercizio della libertà di culto»? La libertà religiosa è una gentile concessione dello Stato ai cittadini?

La libertà religiosa non è un bonus che un governo regala ai cittadini che se lo meritano in alcune circostanze e la cui erogazione viene sospesa quando ritiene prevalgono altri interessi pubblici. Il senso religioso – in qualunque forma si esprima – è dimensione inalienabile della vita di ogni uomo e donna. Il Concilio Vaticano II «dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana» e che «questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società» (Dignitatis humanae, I, 2). E aggiunge che «la libertà della Chiesa è principio fondamentale nelle relazioni fra la Chiesa e i poteri pubblici e tutto l’ordinamento giuridico della società civile. Nella società umana e dinanzi a qualsivoglia pubblico potere, la Chiesa rivendica a sé la libertà come autorità spirituale» (II, 17).

Con il Dpcm 26 aprile 2020, all’art. 1, c. 1, l. i, il governo italiano non si è limitato a consentire l’apertura dei luoghi di culto solo a condizione che siano osservate tutte le misure di profilassi sociale anti-Covid-19 previste – e questo è perfettamente accettabile, perché la salute di tutti i cittadini, compresi i ministri e i fedeli, è un bene comune da tutelare – ma ha anche dichiarato «sospese» le cerimonie religiose, comprese le Messe, con la sola eccezione di quelle funebri, ponendo per le esequie alcune limitazioni. La seconda disposizione, quella sospensiva, rappresenta una ingerenza del potere giuridico e amministrativo dello Stato in una sfera di autonomia della organizzazione della vita di una comunità religiosa. Come recita l’art. 19 della Costituzione italiana, «tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma […] e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». L’accordo di Villa Madama del 1984, noto come “nuovo Concordato”, che regola i rapporti tra Repubblica italiana e la Chiesa cattolica, precisa che entrambi «sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» (art. 1) e che «la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale» ed «è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale» (art. 2, c. 1).

La Conferenza dei vescovi italiani ha giustamente osservato, con la dovuta chiarezza e fermezza, che il citato articolo del Dpcm «compromette l’esercizio della libertà di culto» in quanto esclude che essa possa manifestarsi concretamente nell’atto di culto più frequente e più partecipato dai fedeli cattolici che è la celebrazione della Messa, e riduce drasticamente la possibilità di esprimersi della libertà religiosa dei cattolici al solo ingresso individuale in una chiesa quando in essa non si svolge nessun rito, o alla partecipazione alle esequie di un defunto, quest’ultima limitatamente a non più di quindici persone per ogni funerale.

Le sembra una decisione lecita quella del governo, ai sensi di una corretta concezione della laicità dello Stato? Fino a che punto lo Stato può spingersi “dentro le chiese”?

Per ben impostare la questione che solleva, occorre uscire dal logoro schema dialettico del rapporto Stato-Chiesa, così come si è espresso, tra l’altro, attraverso lo schema cavouriano della “libera Chiesa in libero Stato”. La “laicità” non è neutralità, indifferenza di fronte al senso religioso dell’uomo. È, invece, simpatia per l’umano, per tutto l’umano che è nell’uomo, inclusa la sua apertura alla trascendenza. I bisogni dei cittadini che lo Stato moderno, sociale e democratico, si è impegnato a soddisfare e proteggere non sono solo il cibo, la salute, gli indumenti, la casa, gli affetti familiari, l’educazione dei figli, il lavoro, l’istruzione, la cultura, lo sport ed altri ancora. Resta fondamentale la domanda di salvezza, che – tra l’altro – è inseparata dalla domanda di salute. Le “domande ultime”, radicali della vita dei cittadini, credenti e non credenti, non sono le ultime domande di cui uno Stato laico si deve occupare, ma le prime. Perché danno senso a tutto il resto, stanno dentro alla vita di ogni giorno e di tutti i cittadini.

Uno Stato autenticamente laico può e deve chiedere che anche le chiese siano luoghi sicuri, sanificati, che non mettono a rischio la salute di chi vi sosta per pregare o partecipare a un rito, ma non può entrare “dentro le chiese” perché non è abilitato ad entrare dentro al cuore dell’uomo, a quel nucleo incandescente dove sono accese le sue domande più profonde che trovano risposta proprio nella Chiesa, in ciò che la Chiesa annuncia, vive e celebra nelle chiese.

La Chiesa italiana sarebbe pronta a ripartire con le pubbliche celebrazioni, anche dal punto di vista sanitario e organizzativo?

Sì, certo. In queste settimane che preludono alla “fase 2” dell’emergenza Covid-19, la Chiesa italiana – come hanno fatto le Chiese locali in altri paesi colpiti dalla pandemia – si è preparata ad una ripresa delle celebrazioni cum populo (non ha mai spesso di celebrare pro populo). Lo ha fatto pensando a come riformulare le cerimonie, mantenendo inalterata l’essenzialità del rito e, al medesimo tempo, evitando o modificando alcuni gesti, ricollocando spazialmente i ministri e i ministrati sul presbiterio e i fedeli nell’aula della chiesa e utilizzando con particolari attenzioni gli strumenti a servizio della liturgia. Sono state fatte ipotesi operative sui dispositivi di protezione individuale da indossare, sugli spostamenti delle persone, la loro collocazione a sedere e la modalità di distribuzione della Comunione o di amministrazione di altri sacramenti.

Si è posta particolare attenzione sulla detergenza e la sanificazione efficace e frequente della chiesa, dei locali annessi e degli arredi e di ogni altro oggetto ad uso liturgico, utilizzando i medesimi criteri che vengono adottati per altri luoghi con presenza di più persone, come i trasporti, gli ambienti di lavoro, i negozi e gli uffici dei servizi pubblici. La Chiesa non è sprovveduta, ma ha predisposto con saggezza la ripresa delle celebrazioni. Ora attende solo il via libera, dopo il doveroso confronto con le autorità civili e sanitarie.

Esiste effettivamente il rischio sanitario paventato dal Comitato tecnico-scientifico (Cts) del governo? Perché questo rischio sembra preoccupare le autorità di più, per esempio, di quello che corre un anziano che si rechi al supermercato a fare la spesa?

È irrealistico che qualcuno pensi a folle di fedeli che si accalcano all’ingresso della chiesa e che affollano le navate e i transetti. Ciò non avverrà, perché il ritorno dei fedeli in chiesa, dopo questi mesi, sarà graduale. Molti anziani decideranno di restare a casa per timore o per la mancanza di chi li accompagni. Con la riduzione delle attività catechistiche e oratoriane, anche i bambini e le loro famiglie saranno meno numerosi degli altri anni. Comunque, sarà predisposto un servizio di accoglienza che consentirà di distribuire i fedeli nelle panche o sulle sedie alla distanza prevista dalle norme di profilassi socio-sanitaria, e vi sarà un numero massimo di persone (concordato con le autorità di competenza) che potranno partecipare ad ogni singola Messa.

E poi, perché tanti timori di pericolo sanitario per la distribuzione della Comunione? Sarà anch’essa fatta con tutti gli accorgimenti, le modalità e le protezioni che evitino i contatti tra la mano del sacerdote e quella del fedele. Nella sezione dei prodotti da forno dei supermercati non vengono forse distribuiti prodotti da lievitazione, dolci o salati, dalle persone addette, che li prendono con protezioni personali dai contenitori, li porzionano e li consegnano ai clienti?

Ma che cos’hanno di tanto irrinunciabile queste Messe per i credenti? Non basta pregare nel proprio intimo? Anzi, non è prova di fede maggiore coltivare il rapporto interiore con Dio, come in questi giorni hanno scritto anche tanti intellettuali cattolici?

La dimensione comunitaria della fede cristiana trova nelle celebrazioni liturgiche – in particolare nell’Eucaristia domenicale – la sua “sorgente” e il suo “vertice”, secondo l’espressione del Concilio Vaticano II, che definisce così la liturgia: «La fonte da cui promana la sua forza vitale» e «il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa» (Sacrosactum Concilium, 10). Senza la celebrazione della Messa la comunità cristiana si inaridisce, si spegne. Col tempo diviene astenica, perde quella energia che la sorregge nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia, nella vita e nella morte: una energia divina che è la Grazia.

Per non aver rinunciato alla Messa domenicale, tanti cristiani hanno affrontato il martirio, in alcuni paesi del mondo, oggi come nei primi secoli dopo Cristo. Come quando, nel 304, ad Abitene (una cittadina dell’odierna Tunisia) venne arrestato un gruppo di cristiani. Di fronte al proconsole che li accusava di riunirsi illecitamente, e di non aver impedito ad altri credenti – nonostante l’editto lo proibisse – di entrare nelle loro case per celebrare l’Eucaristia, uno di loro, Emerito, rispose: «Non potevo farlo, perché noi non possiamo vivere senza celebrare la cena del Signore». Anche noi, oggi, non possiamo continuare a vivere senza la Messa.

Il rapporto intimo con il Signore ha certamente un valore profondo nella vita spirituale del cristiano. Il silenzio, la preghiera personale, la lettura della Parola di Dio e di altri testi ad essa ispirati, e la meditazione sono fondamentali per un adulto nella fede. Ma la fede cristiana non è intimistica, bensì comunitaria, ecclesiale. E la liturgia celebrata con il popolo di Dio è la voce corale di questa vocazione ad essere “un corpo solo” e “un’anima sola” (cf. 1 Cor 12, 13; Ef 4, 4).

Come ha ricordato papa Francesco a questo proposito, queste modalità a distanza di partecipare alla Messa sono legate «al momento difficile» che abbiamo sperimentato finora nella “Fase 1” della pandemia, ma «la Chiesa è con il popolo, con i sacramenti», è «familiarità concreta con i sacramenti e il popolo fedele di Dio. […] Solo la comunità è Chiesa».

Il comunicato della Cei si conclude così: «Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale». Come dire: scordatevi di ridurre il cristianesimo a un’opera pia. È questa la visione che prevale nel Cts e nel governo?

Mi auguro proprio di no. Ma vi è il rischio – e non mancano i segni premonitori di questo – che si stia facendo strada in taluni ambienti non familiari con l’esperienza cristiana l’idea che il servizio ai più poveri e ai reietti dalla società che i singoli credenti, i loro gruppi e le loro associazioni svolgo da sempre, ma con particolare zelo in questi tempi di emergenza sanitaria, sociale ed economica, sia frutto di una filantropia psicologica, di un bisogno affettivo di dedicarsi agli altri, o di un volontarismo quasi eroico. Non è questa la ragione e la forza della carità cristiana, in qualunque tempo e forma si manifesti.

Il credente ama e serve il prossimo perché fa l’esperienza di essere amato e servito da Dio in Cristo. E questa sorgente d’amore e di servizio sta lì, nell’Eucaristia: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19; 1 Cor 11, 24). Il memoriale della passione, morte e risurrezione di Gesù – la Messa – è ciò che riaccende la forza della carità cristiana. I vescovi ci hanno ricordato che non si possono separare le opere della carità dalla sorgente della carità: chi nella società e nella politica stima e incoraggia le prime non può, al medesimo tempo, privare i cristiani della “fontana della carità” che è la Grazia sacramentale. Senza attingere al pozzo, il secchio dell’acqua resta vuoto per i credenti e per tutti quelli che si abbeverano ad esso.

Foto Ansa

Tags: ceichiesa cattolicaconferenza episcopale italianaCoronavirusgiuseppe contePapa Francescoroberto colombo
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