Reddito di cittadinanza e riforma delle pensioni ci porteranno al fallimento
Articolo tratto dal numero di ottobre di Tempi
Continuando nella considerazione delle rivendicazioni egualitarie del ’68, in questa puntata vorrei mostrare come la loro realizzazione abbia lasciato in eredità al nostro paese un sistema sociale problematico. Le istanze della ribellione universitaria, nel ’69, si sono diffuse al contesto sociale e soprattutto al mondo del lavoro con quello che venne chiamato autunno caldo, primo di tanti riscaldamenti successivi. In quegli anni l’Italia era nella fase matura di un forte processo di industrializzazione che l’aveva trasformata da paese prevalentemente agricolo a potenza mondiale. Tale trasformazione non era andata tanto per il sottile con la pelle dei lavoratori, che pativano un numero crescente di malattie e infortuni anche mortali.
Lo vidi chiaramente qualche anno più tardi quando entrai a fare la tesi di laurea presso la Clinica del lavoro di Milano: c’erano tre piani di degenza con 150 letti riempiti per i due terzi da pazienti in accertamento di malattia professionale; adesso i letti mi pare siano quattro. Nel 1974-75 per la tesi di specializzazione fui mandato all’Italsider di Lovere, dove la Clinica era stata chiamata a intervenire perché tre operai erano morti a causa di infortunio. Come ho avuto occasione di descrivere in altra sede (Ed io che sono? Torino, La Fontana di Siloe, 2016 ) le condizioni di lavoro erano effettivamente dure, oltre che per il pericolo di infortuni, per i fumi, il calore, il rumore e le vibrazioni. L’età media degli operai era 27 anni, perché pochi resistevano oltre i 30 e i più si cercavano un altro lavoro. Per dare un’idea, la Clinica mi aveva incaricato anche fare il medico del lavoro presso la Telettra di Vimercate, produttrice tra l’altro di componenti e circuiti elettronici: qui l’età media era 43 anni. I lavoratori dell’Italsider si consideravano un’aristocrazia operaia alla testa del movimento di cambiamento di quegli anni. Erano tutti di sinistra, comunista ed extraparlamentare, e molto sindacalizzati. Il sindacato era in cima alla classifica del prestigio sociale e stava acquisendo il potere di blocco e interdizione che lo caratterizza ancora oggi, anche se oggi tale potere è da molti considerato quasi un ostacolo allo sviluppo.
Allora fu decisivo per realizzare quello che era ritenuto un miglioramento delle condizioni di lavoro. In tale miglioramento un peso importante ebbe l’introduzione di una serie di vantaggi pensionistici estesi a tutta la popolazione lavorativa. Emblematica fu l’approvazione nel 1973 con il voto congiunto di maggioranza e opposizione delle cosiddette “pensioni baby”, ovvero la possibilità di andare in pensione prima dei 40-50 anni, con: 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi per le donne sposate con figli; 20 anni per gli statali; 25 per i dipendenti degli enti locali. Fu l’espressione massima di una presa di distanze dal lavoro, per cui l’Italia, tra i paesi dell’Ocse – Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che raduna i 35 paesi più sviluppati del mondo – è al terz’ultimo posto, sopra la Grecia e la Turchia, per percentuale di occupati: 57 per cento contro una media del 67. Esemplificativamente la Svizzera ha una percentuale di occupati dell’80 per cento, Regno Unito e Germania 75, Stati Uniti 69, Francia 65.
Si potrà osservare che da noi è così perché ci sono maggiori difficoltà a trovare il posto di lavoro. Ma cosa dire se ci paragoniamo con i paesi dell’est, Polonia, Ungheria, Slovacchia, Slovenia tutti al 65 per cento di occupati? Spagna e Portogallo che hanno una disoccupazione maggiore della nostra hanno percentuali di occupazione del 60 e del 65 per cento. Tale situazione fa sì che la spesa pensionistica italiana sia pressappoco tra il 13,5 e il 17 per cento del prodotto interno lordo – c’è una certa discussione – inferiore solo a quella della Grecia, superiore di 3-5 punti alla media europea e il doppio della media dell’Ocse. L’eccesso di spesa dedicata alle pensioni fa sì che questa si mangi risorse che possono essere impegnate in altri aspetti della protezione sociale, ovvero del sistema che cerca di assicurare ai cittadini il sostegno per istruzione, salute, casa, occupazione, cultura e sicurezza.
OTTOMILA EURO ALL’ANNO
L’ampiezza e l’onerosità del sistema di protezione sociale è una peculiarità dell’Unione Europea, almeno della sua parte occidentale più sviluppata, rispetto all’altra unione, altrettanto sviluppata e concorrente, gli Stati Uniti d’America. Mentre qui è comune sentire che una persona adulta deve essere in grado di affrontare e risolvere i propri bisogni, l’Unione Europea è assai più protettiva. Per ogni suo cittadino, dal primo giorno di vita, la spesa è di oltre 8.000 euro all’anno, fissi, a prescindere dagli interventi straordinari per rimediare la malattia, l’invalidità, il licenziamento e le varie disgrazie che possono occorrere nella vita. L’Unione Europea è molto orgogliosa del suo sistema di welfare, in cui impiega circa il 30 per cento del prodotto interno lordo e il 70 per cento della spesa della pubblica amministrazione. Accusa indirettamente gli Stati Uniti di essere responsabili di una società fortemente competitiva e spietata verso chi è in necessità. Tali critiche hanno cominciato a produrre effetti, in particolare sulla organizzazione sanitaria, che il presidente Obama ha riformato nel 2010, introducendo una serie di garanzie assicurative salvaguardate dalla pubblica amministrazione statale o federale.
POCHI BAMBINI, TANTI VECCHI
Il problema della protezione sociale sono i costi. L’Italia ha un debito pubblico del 133 per cento, ma anche gli altri paesi non scherzano. Il loro debito è pure in aumento. Inoltre se si tiene conto che i contributi pensionistici dei lavoratori servono a pagare le pensioni attuali e non quelle future, il debito degli Stati nei confronti dei loro cittadini è ben più di quello dichiarato; si calcola che possa facilmente arrivare al doppio, se non al triplo e oltre. La riforma sanitaria di Barack Obama non ha ridotto i costi, come previsto e sbandierato dallo stesso presidente, ma li ha aumentati: questi sono arrivati a quasi il 18 per cento del Pil – nella Ue sono mediamente 9-10 per cento e in Italia un po’ meno del 9 – con una spesa procapite di 9.500 dollari contro i 4.500-5.000 dollari di Francia e Germania e i 3.100 circa nostri.
Sta di fatto che, misurando l’efficienza del servizio sanitario dal rapporto tra attesa di vita e spesa, proprio recentemente l’agenzia Bloomberg ha messo il nostro paese al quarto posto nel mondo e gli Stati Uniti al 54esimo posto su 56 paesi. Anche Francia e la Germania non fanno una gran figura, nel senso che la prima è classificata al 16esimo posto e la seconda al 45esimo.
Adesso i nostri nuovi governanti e in particolare la Lega vogliono ridurre l’età di pensionamento che con la legge Fornero è legalmente stabilita a circa 67 anni. Il vice-premier Matteo Salvini, che si occupa di tutto, come l’altro vice-premier Luigi Di Maio, vuole l’età di pensionamento a 62 anni. Il ragionamento da cui parte lui e quelli che la pensano come lui è che 67 anni è la soglia più alta tra i paesi dell’Ocse. Tuttavia, l’età effettiva in cui si va in pensione in Italia, a cause di differenze di trattamento nei diversi settori lavorativi, è intorno ai 62 anni, circa due anni in meno della media Ocse, con quindi l’eccesso di spesa sopra ricordato.
Per valutare adeguatamente i propositi dei nostri governanti – mettiamoci anche il reddito di cittadinanza – bisogna tenere conto di altri fattori non secondari. Il prodotto lordo pro capite, ovvero la ricchezza mediamente prodotta da ciascun italiano, è 27.000 euro, molto disomogeneo da regione a regione – quasi 37.000 euro in Lombardia contro 17.000 in Calabria – e inferiore a quello medio della Ue che è circa 30.000 euro. Ci stiamo impoverendo.
La fertilità delle donne italiane è tra le più basse del mondo, 1,35 bambini per donna, mentre per sostituire i morti ci vorrebbero almeno due bambini per donna – cosa che in Europa non accade da nessuna parte. Il risultato è che la popolazione diminuisce e invecchia; la popolazione che cresce di più è quella sopra i 60 anni, che in Europa è ormai un quarto degli abitanti e in Italia addirittura il 30 per cento. L’Italia risulta essere uno dei paesi con più anziani: gli ultrasessantacinquenni sono 13,4 milioni, il 22 per cento del totale; in riduzione risultano sia la popolazione in età attiva di 15-64 anni (39 milioni, il 64,3 per cento del totale), sia quella fino a 14 anni di età (8,3 milioni, il 13,7 per cento); l’indice di dipendenza strutturale – rapporto tra popolazione non attiva (0-14 e over 65 anni) e attiva – è al 55,5 per cento. Ciò significa che oggi, per ogni due persone che lavorano, una non lavora.
SPERARE NELLA TROIKA (SOB!)
Se gli indicatori demografici andranno avanti nello stesso modo, nel 2050 per ogni persona che lavora ce ne sarà una che non lavora. Inoltre, poiché l’età è il maggior fattore di malattia, data l’anzianità crescente della popolazione il carico complessivo di malattia, nonostante e in un certo senso a causa dei progressi della medicina, non diminuirà, ma rimarrà invariato con una spesa verosimilmente cresciuta, dovuta al progresso delle tecnologie in risposta a esigenze e conoscenze maggiori e più sofisticate. Già oggi il 40 per cento circa dei residenti in Italia lamenta di essere affetto da una delle principali malattie croniche. Di questo passo si stima che la spesa sanitaria che oggi è al 9 per cento del prodotto interno lordo potrebbe aumentare dal 4 all’8 dello stesso Pil. Il che insieme alla spesa pensionistica e per la protezione sociale, ricordate più sopra, sarà insostenibile.
Bisogna lavorare di più e più a lungo coerentemente con la constatazione che se in passato il periodo di disabilità, ovvero di decremento della capacità psichica, fisica e quindi lavorativa, si manifestava tra i 65 e i 75 anni, oggi è prevalentemente tra i 75 e gli 85. Sono un medico, non un economista e nemmeno un esperto di pubblica amministrazione. Posso pertanto sbagliare, ma i dati che ho riportato e che non sono molto discutibili, mi fanno ritenere che le riforme come reddito di cittadinanza e riduzione dell’età di pensionamento porteranno al fallimento se non noi, i nostri figli e nipoti. Anche questa prospettiva, con tutti i passaggi riportati, per quanto alla lunga, può essere ritenuta un’eredità del ’68. Dobbiamo sperare nel rinsavimento dei nostri governanti, nell’Europa – altro che uscire! – e persino nella troika (sob!).
Foto Ansa
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