
Terminata la battaglia per il Quirinale, s’è aperta quella per la legge elettorale. Era inevitabile. Anche se ora è un’eventualità negata o temuta (è il caso di Giorgia Meloni, che rimarrebbe confinata all’opposizione), la questione di rivedere le regole su come si debba andare a votare la prossima volta è la naturale prosecuzione del ragionamento politico che ha portato al Mattarella Bis (mantenere lo status quo).
Non è stato un bello spettacolo, diciamo la verità. Su queste colonne, Lorenzo Castellani ha già spiegato per bene cosa è successo in questi giorni. E il nostro Lodovico Festa ha trovato il titolo per fare la sintesi: «Mattarella non l’ha rieletto “la saggezza del Parlamento”, ma la sua disperazione».
La confusione è tanta, le colpe gravi e ben distribuite tra tutti i partiti, il dato eclatante di una politica in difficoltà è evidente a tutti. C’è un problema di credibilità dei leader che è lampante.
Occasione sprecata
Alla tendenza centrifuga di inizio legislatura si oppone ora una forza centripeta. Abbiamo iniziato con un parlamento diviso in tre (M5s, centrodestra, centrosinistra), abbiamo proseguito con due sodalizi innaturali come quello tra grillini e leghisti e poi piddini e grillini, abbiamo terminato con il grande assembramento sotto la tutela di Mario Draghi. Insomma, l’andazzo era chiaro (leggetevi il Formigoni di ieri su Libero) e qui sta il grave errore politico di Matteo Salvini che non ha saputo intenderlo né è stato capace di assecondarlo volgendolo a suo favore. Perché per il centrodestra è certamente una sconfitta aver dovuto votare, sette anni dopo, il candidato del Pd (o vogliamo raccontarci la favola che Mattarella non è un “uomo di parte”?). Il centrodestra aveva un’occasione e l’ha sprecata malamente. Non è la prima volta che capita (ricordate Milano?): si può iniziare a parlare a ragion veduta di “sindrome tafazziana”.
Cosa vogliono fare ora Salvini, Meloni e Berlusconi? Ritrovare un’unità in nome di principi e ideali condivisi e così presentarsi agli elettori oppure prendere atto di una frammentazione e dunque ragionare su una legge elettorale proporzionale che rimandi la decisione delle alleanze a dopo il voto (e dunque bye bye coalizione)? A guardare la cronaca di questi giorni, un’idea ce la si può fare facilmente. È per questo che l’idea di dar vita a una Assemblea costituente, lanciata oggi da Giuseppe Valditara su Libero, non è da scartare.
Un problema di identità
Qualche giorno fa, Mattia Feltri ha avuto gioco facile a ironizzare sulla “compattezza” dei nostri: «Sono quattro anni, dall’inizio della legislatura, che il centrodestra è compatto. Prima Salvini è andato al governo con Luigi Di Maio e Meloni e Berlusconi se ne sono rimasti compattamente all’opposizione. Poi è caduto il governo e il trio è rimasto compattamente fuori dal nuovo governo. Infine è arrivato Draghi, Meloni si è rimessa all’opposizione e Berlusconi e Salvini sono passati compattamente in maggioranza. Non è meraviglioso? Berlusconi è stato all’opposizione di Salvini, all’opposizione con Salvini e con Salvini al governo. Non credo esistano altre combinazioni, altrimenti le avrebbero sperimentate. Si può dire che il centrodestra è compatto nell’idea che ognuno si fa i fatti propri, e talvolta possono coincidere coi fatti degli alleati e altre volte divergere».
Forse, innanzitutto, andrebbe capito questo: il tragitto ondivago del centrodestra in questa legislatura è figlio dell’improvvisazione e della convenienza del momento. Che magari arreca qualche vantaggio nell’immediato, ma alla lunga costringe a pagare pegno.
Alla fine si torna sempre lì: c’è un problema di identità. Se non sai chi sei e cosa vuoi, non sai nemmeno dove andare. È un problema grave, di cui gli sbandamenti contingenti sono pura conseguenza.
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