La disgregazione politica e istituzionale che ha portato alla rielezione di Mattarella

Di Lorenzo Castellani
29 Gennaio 2022
Né Draghi né figure super partes al Quirinale. Tutto rimane com'è, ma solo in superficie. Le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono rotte. Analisi di un trionfo della stabilità dal futuro incerto
Il leader della Lega, Matteo Salvini, durante il voto per eleggere il Capo dello Stato (foto Ansa)

Lo scenario di extrema ratio, quello che ha condotto alla rielezione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha prevalso. Ogni altra mediazione tra partiti che riguardasse lo spostamento del presidente del Consiglio Mario Draghi al Quirinale o l’individuazione di una figura terza super partes è fallita. La conclusione della elezione del capo dello Stato è l’epilogo di una legislatura estremamente sofferta e di un sistema politico in decomposizione. Come si arrivava sul piano del sistema politico a questa elezione presidenziale?

L’ascesa di Meloni e il doppio gioco di Salvini

A destra, l’ascesa di Giorgia Meloni, leader dell’unico partito all’opposizione del governo Draghi, Fratelli d’Italia, ha costretto Matteo Salvini a un doppio gioco equivoco: al governo con una maggioranza di unità nazionale, ma a tutte le elezioni come coalizione di centrodestra. La resistenza elettorale e parlamentare di Forza Italia, attratta dalle spinte centripete e da un rapporto sempre più stretto con Matteo Renzi e altre componenti moderate, ha complicato ulteriormente lo schema. Mentre Meloni puntava con Salvini su un modello maggioritario e sulla ricostruzione della vecchia alleanza di centrodestra, con l’obiettivo di elezioni quanto prima, il partito di Berlusconi e la galassia centrista hanno virato verso il proporzionale e vogliono a tutti i costi il proseguimento della legislatura.

Non meno complessa era l’intelaiatura del polo di sinistra. Il Pd restava il perno principale, pur continuando a essere diviso tra la componente cattolica (Letta, Franceschini, Gentiloni) e quella socialista (Orlando, Provenzano), mentre il Movimento 5 stelle arriva diviso tra una leadership mai decollata, quella di Giuseppe Conte, e una lateralizzata per convenienze personali, quella di Luigi Di Maio. Quest’ultimo è sempre stato convintamente governista, vicino a Draghi, fautore della stabilità della legislatura e ambiguo rispetto all’alleanza strutturale con il Pd.

Il secondo ha subìto Draghi, che gli è succeduto in corsa, è stato l’artefice dell’asse con i democratici ed era consapevole che la sua leadership nel Movimento poteva essere solidificata e legittimata soltanto con le elezioni. All’arrivo in aula sia Di Maio che Conte faticano a controllare il gruppo parlamentare pentastellato che resta radicato ai valori dell’antipolitica e del giustizialismo, due elementi che rendono molti nomi per il Quirinale inaccettabili a gran parte del Movimento.

Quelli che non volevano andare al voto

In questo gioco si inserisce Italia viva di Renzi, partito quasi inesistente sul piano del consenso, ma fondamentale per il centrosinistra sul piano parlamentare. Formazione che nel corso del 2021 ha votato spesso in Parlamento insieme a Lega e Forza Italia, che vuole arrivare alla fine della legislatura e ambisce al ruolo di ago della bilancia tra i due poli in un nuovo sistema proporzionale. Da ultimo, sul Parlamento pende una riforma costituzionale originata dall’antipolitica. Dalla prossima legislatura i membri del Parlamento passeranno da 945 a 600, con notevole riduzione di possibilità di essere rieletti per un gran numero di parlamentari.

Il girone infernale di Montecitorio

Queste sono le condizioni di partenza della corsa alla presidenza della Repubblica, a cui si aggiunge l’attivismo degli ultimi mesi di Mario Draghi, il quale ha lasciato intendere alle forze politiche di avere come obiettivo l’ascesa alla presidenza della Repubblica. Draghi si è pubblicamente messo a disposizione e prima che si iniziasse a votare ha anche avviato contatti e incontri con i gruppi politici. Tuttavia, l’aula di Montecitorio è un girone infernale, una palude insondabile. I peones di tutti i partiti non vogliono mandare Draghi al Quirinale perché lo ritengono troppo rischioso, temono che possa mancare un accordo sul nuovo governo che apra una via alle elezioni anticipate.

Nelle prime tre votazioni, dove è richiesto un quorum di 2/3 per eleggere il presidente, le difficoltà per l’operazione Draghi iniziano a essere subito evidenti con l’emersione di decine di voti per Mattarella. Evidenza che si rafforza alla quarta tornata quando i partiti sono ancora in stallo sui candidati. Il “Parlamento profondo”, quello dei deputati e dei senatori che temono di non essere rieletti e di terminare la legislatura prima del tempo, manifesta segnali chiari: lasciare tutto com’è o, in ogni caso, non mettere a rischio maggioranza e governo.

Alla quinta votazione, dopo aver bruciato una serie di personalità d’area per il fuoco incrociato tra alleati, Salvini decide di tentare una mossa improvvida, anche su pressione dell’alleato-concorrente Giorgia Meloni. Il leader leghista decide di abbandonare momentaneamente l’idea di una convergenza della maggioranza che sostiene il governo Draghi per forzare la mano con una personalità proposta dal centrodestra. L’idea è quella di contarsi in aula, dare una prova di unità, e portare quel pacchetto di voti al tavolo negoziale con gli altri leader del Parlamento per eleggere un candidato proposto dal centrodestra.

Le divisioni fatali del centrodestra

Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia puntano sulla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, un candidato di profilo alto ma debole sul piano politico. Il centrosinistra diserta l’aula e non rilancia altri nomi per la difficoltà di accordarsi tra Pd e Movimento 5 stelle. Il centrodestra nel contarsi mostra le sue fatali divisioni. La Casellati non arriva a 400 voti (quorum 505), quasi cinquanta parlamentari di destra scrivono Mattarella sulla scheda. Salvini comprende che la via dell’autonomia non è praticabile e torna al tavolo delle trattative molto indebolito.

A quel punto Conte, che vuole scongiurare in ogni modo l’elezione di Draghi al Quirinale, propone a Salvini e Letta il nome di Elisabetta Belloni, attuale capo del Dis, l’agenzia di intelligence italiana. Salvini e Conte rivendicano l’accordo, mentre Letta si mostra ottimista ma più tiepido. I partiti minori insorgono: Belloni significa quasi certamente fine del governo Draghi ed elezioni anticipate oltre che una pericolosa stortura istituzionale. Renzi, Berlusconi, Speranza e gli altri piccoli gruppi fanno muro, mentre anche nel Pd crescono le perplessità. I numeri in aula non ci sono. In serata Di Maio assesta il colpo finale alla proposta Belloni, costringendo il collega di partito Conte alla marcia indietro.

I veti incrociati e il Mattarella bis

Si ragiona su altri nomi come Cartabia e Casini, ma i veti incrociati di gruppi e sottogruppi parlamentari su questi nomi sono troppi. Se il centrodestra è in panne, il centrosinistra non è meno dilaniato dalle divisioni. Nel frattempo al sesto scrutinio Mattarella vola oltre le 300 preferenze. Se non si supera lo stallo, si rischia che il presidente uscente venga rieletto in modo preterintenzionale e senza accordo pregresso tra i partiti. Sarebbe un ennesimo disastro istituzionale, peggiore persino dei precedenti.

Di fronte all’impossibilità di un accordo per l’elezione di Draghi, che presupporrebbe un pregresso accordo sul nuovo governo, e bruciate tutte le altre carte super partes, i partiti non possono che convergere sul bis di Mattarella e andare diritti verso un’altra anomalia istituzionale, trasformando l’eccezionalità della rielezione in una nuova convenzione costituzionale.

Una maggioranza indebolita e fratturata

Tutto rimane com’è, o almeno così sembra in superficie. Un trionfo della stabilità che può andare bene ai mercati finanziari e all’Unione Europea. La realtà, però, è ben più complessa dell’apparenza. Draghi, sebbene resti il primo interlocutore di Mattarella, esce da questo percorso con una maggioranza indebolita e fratturata. Partiti maciullati si apprestano a entrare in un anno pre-elettorale commissariati dal Quirinale e da Palazzo Chigi. Governare in modo incisivo sarà molto complicato per il presidente del Consiglio, in particolare nella seconda parte dell’anno. Il presidente della Repubblica è costretto ad accettare un secondo mandato, prassi ritenuta eccezionale e non consolidata, che non avrebbe voluto e che suo malgrado lo trasforma in una sorta di monarca costituzionale a tempo. Le due coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono rotte.

Lega ridimensionata, Pd e M5s distanti

A destra, Forza Italia si muove verso il centro, la Lega ridimensionata resta la destra di governo, mentre Fratelli d’Italia sfrutterà un anno di opposizione per intercettare tutto il voto antisistema. L’idea di una vittoria piena per la coalizione di centrodestra alle prossime elezioni resta probabilmente una illusione del passato ed è possibile che nel prossimo futuro si determini una frattura tra destra di governo (Forza Italia e Lega, o parte di quest’ultima) e destra indisponibile al compromesso con altre forze (Fratelli d’Italia).

A sinistra, il sodalizio tra Pd e Movimento 5 stelle non decolla e quanto avvenuto sulle ipotesi di elezione al Quirinale di Draghi e Belloni ne è la testimonianza. I due partiti restano lontani nella cultura e nel metodo, il Movimento 5 stelle resta scisso tra Di Maio e Conte oltre che a picco nei sondaggi rispetto all’exploit del 2018.

Lo stesso Pd dovrà quasi certamente abbandonare l’idea illusoria del “campo largo” e dello schema maggioritario per avviarsi verso una stagione negoziale con altre forze politiche di destra, centro e sinistra. Renzi è oramai proiettato al centro, verso Forza Italia e gli altri centristi, con l’idea di costruire un polo moderato autonomo capace di sfruttare i vantaggi posizionali della frammentazione dei due principali schieramenti.

Il futuro incerto di Draghi

Il sistema corre veloce verso una proporzionalizzazione. È verosimile infatti che di legge elettorale si tornerà a discutere nei prossimi mesi. Il sistema politico avrà probabilmente una torsione centrista nei prossimi anni e accordi trasversali saranno necessari per avere seggi a sufficienza per governare. A breve, inoltre, si verificherà la propulsione residua rimasta al governo Draghi sul piano esecutivo, mentre Mattarella resterà il perno del sistema almeno fino a dopo le prossime elezioni politiche.

Il futuro del presidente del Consiglio oggi è più incerto. Arriverà alla fine della legislatura, ma è difficile fare pronostici ulteriori. Potrebbe essere recuperato ancora come premier se dopo le elezioni ci fosse un’altra coalizione mista, con convergenza al centro, oppure restare in attesa come potenziale successore di Mattarella. Tuttavia, con questo livello di disgregazione politica e istituzionale, il futuro è incerto per tutti gli attori sulla scena, Draghi incluso.

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