Quanta cattiveria ci vuole per accanirsi su un uomo morto?

Di Emanuele Boffi
01 Gennaio 2022
Il Fatto si accanisce su Angelo Burzi, il consigliere regionale che si è tolto la vita perché coinvolto nell'inchiesta "Rimborsopoli".
Funerale di Angelo Burzi ex consigliere regionale del Piemonte presso la chiesa San Filippo Neri, Torino, Torino, 30 dicembre 2021
Funerale di Angelo Burzi ex consigliere regionale del Piemonte presso la chiesa San Filippo Neri, Torino, 30 dicembre 2021

Che senso ha accanirsi su un uomo che non può più controbattere? «De mortuis nihil nisi bonum» dicevano i latini per esprimere quel sentimento di rispetto che andrebbe portato di fronte ai defunti. Questa pietà è sconosciuta dalle parti del Fatto, il giornale di Marco Travaglio che per ben due volte – prima con un editoriale vergognoso (“Chi non muore si ravvede”) e poi con una frase in prima pagina sopra la testata – ha “sparato” a un uomo morto, Angelo Burzi, l’ex consigliere regionale di Forza Italia e assessore al Bilancio, finito nel tritacarne dell’inchiesta “Rimborsopoli” e suicidatosi la notte di Natale a 73 anni.

Ha senso distruggere una lapide? No, non ha senso. Ma per Travaglio, come ha ricordato Filippo Facci su Libero, «un uomo è il suo casellario giudiziario». Anche se, nel caso di Burzi, a ben vedere, trattavasi di incensurato, perché «aveva una condanna passata da più gradi ma non ancora in giudicato (non definitiva, cioè)».

La lettera di Burzi

Ieri il Giornale ha pubblicato una delle lettere che Burzi ha lasciato prima di abbandonare questo mondo. Una lettera forte, drammatica, in cui l’ingegnere ripercorreva il suo calvario giudiziario, iniziato nel 2013, quando assieme ad altri 52 colleghi fu accusato di peculato, cioè spese pazze, a sbafo dei contribuenti. L’inchiesta allora fece molto rumore e portò alla rovina il governatore leghista Roberto Cota che sui giornali fu accusato di aver acquistato delle «mutande verdi». Fango, come al solito; lo sappiamo come funziona.

Anche perché, dopo una prima condanna sull’onda del clamore mediatico, Burzi, Cota e altri 14 consiglieri furono assolti. Ma per Burzi la storia non era finita e nella sua ultima lettera se ne lamenta. Il processo d’appello nel 2018 aveva ribaltato la sentenza e nel 2019 la Corte di Cassazione aveva rideterminato le pene.

La giustizia è “il peggio”

Come raccontava lui stesso nella lettera: «La giustizia è un esempio appunto del “peggio”, non trascurando che lo scrivente è certo di essere totalmente innocente nei riguardi delle accuse a lui rivolte. Alla fine del processo di appello, 14 dicembre u.s., ho totalizzato una condanna a tre anni per peculato svolto continuativamente dal 2008 al 2012. I possibili sviluppi stanno in un possibile nuovo ricorso in Cassazione, che avrà con grande probabilità un esito nuovamente negativo, diciamo alla fine del 2022. E qui iniziano i problemi seri perché interverrà la sospensione dell’erogazione del vitalizio per la durata della condanna. Probabilmente si sarà fatta nel frattempo nuovamente viva la Corte dei conti pretendendo le conseguenze del danno di immagine da me provocato, diciamo non poche decine di migliaia di euro».

Abbandonare il campo

Burzi non ce l’ha fatta. Non ce l’ha fatta dopo anni di sputtanamento, una carriera politica rovinata, una salute claudicante, la pensione su cui incombeva la mannaia della Corte dei Conti. Non ce l’ha fatta a sopportare altri anni di questo “peggio” e ha scelto con un gesto estremo, come lui stesso ha scritto, di «abbandonare il campo in modo definitivo».

Ma per Travaglio tutto ciò non merita rispetto. Così ha ricordato che Burzi patteggiò, in un altro troncone del procedimento, le spese tra il 2008 ed il 2010. Vero. Come è vero – e tutti lo sanno – che spesso si patteggia non per ammettere la colpa, come deduce il direttore del Fatto, ma per sottrarsi dalla morsa di una giustizia che si sente ingiusta. Anche perché, come ha ricordato anche Cota, «si tratta di spese che sono per tipologia sostanzialmente uguali a quelle per le quali era stato assolto ed ha deciso di patteggiare soltanto dopo che la sentenza per il troncone 2010/2012 era stata ribaltata».

Una revolverata alla tomba

Ma per Travaglio tutto ciò non conta. Non conta il merito – come il fatto che Burzi mostrò in aula durante il processo i suoi estratti conto, dai quali emergevano oltre settemila euro di ristoranti e cinquemila di cellulari che non aveva mai accollato alle casse pubbliche – né il “fattore umano”. Per lui un politico di centrodestra è un colpevole fino a prova contraria. E tanto gli basta per fare un titolo sul suo giornale, che assomiglia tanto a una revolverata alla tomba del povero Burzi.

Foto Ansa

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1 commento

  1. CARLO SCHIEPPATI

    Ma qual è l’articolo della legge sul finanziamento (vabbè, “rimborsi elettorali”) ai partiti che prescrive l’obbligo di rendicontazione delle spese? Io non l’ho mai trovato. Se c’è un obbligo di rendicontazione ci devono essere delle tabelle merceologiche che elencano i beni e i servizi che danno diritto ai rimborsi. Se, come penso, tale obbligo non era prescritto, allora l’utilizzo dei rimborsi per le spese di partito era discrezionale e insindacabile da qualsiasi altro ufficio. Certo, le spese improprie sono soggette ad una valutazione di ordine morale da parte degli elettori e possono risultare riprovevoli: non tanto quanto possano essere oggetto di censura – chessò – una cena con un magistrato o, peggio, con un giornalista alla Travaglio.

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