Quando gli operai salvano l’azienda. A costo di comprarla rinunciando a cassa integrazione, Tfr e festività

Di Chiara Rizzo
04 Maggio 2014
Sono una quarantina in Italia le imprese in crisi rilevate e risollevate dai dipendenti. Come la Cesame di Catania e la Greslab di Scandiano (Re). Parlano i protagonisti

cesame_sicilia_impresa_falsaperla_tempiRinascere dalla crisi unendo le forze, con la speranza e la creatività come solide basi. Si può: è la ricetta dei workers buyout, le cooperative di lavoratori che hanno rilevato le proprie aziende in stato fallimentare e le hanno rilanciate, spesso usando i sussidi di mobilità come base per il capitale sociale. Da nord a sud, in Italia oggi sono circa 40 le imprese nate così. Storie esemplari, come quella della Cesame di Catania, un caso di tenacia tutta siciliana. Fino agli anni Novanta, la Cesame era una florida azienda di ceramiche, con 600 dipendenti ed esportazioni in 48 paesi. Poi sono iniziate la crisi, la procedura pre-fallimentare, un can can di vertenze in tribunale e gestioni dissennate da parte di società finanziarie del nord Italia, che l’hanno “spacchettata” e portata al collasso. Oggi è pronta a ripartire grazie a 77 operai.

A raccontare la vicenda a Tempi è uno di loro, Salvatore Falsaperla: «Dal 2000 noi operai per anni abbiamo avuto l’impressione di trovarci di fronte ad un gioco di scatole cinesi. Così, nel 2009, come dipendenti abbiamo chiesto al tribunale di sentenziare il fallimento della società. Ognuno di noi si è arrangiato come poteva. Ci sono stati miei colleghi che hanno perso la casa, e altri che hanno visto lo sfascio delle proprie famiglie». Nel febbraio 2010, i 140 dipendenti rimasti hanno iniziato a percepire la cassa integrazione. Ma invece di accontentarsi, hanno dato una svolta netta: «Abbiamo iniziato a ragionare su cosa si sarebbe potuto fare del nostro futuro. Eravamo certi che la Cesame, se gestita bene, favrebbe superato qualsiasi congiuntura. Così, in 77 abbiamo deciso di mettere da parte un po’ della nostra cassa integrazione e il Tfr e investirli nella creazione di una cooperativa sociale per rilevare l’azienda, per circa 22 mila euro a testa. Non è stato facile, però ogni mese ognuno di noi ha versato alla cooperativa 300 euro a testa, la metà della nostra Cig. Così abbiamo raccolto quasi due milioni di euro».

Un fatto importante, racconta Falsaperla (oggi vicepresidente della cooperativa sociale Cesame), è stato l’incontro con l’ex amministratore delegato dell’azienda nei “tempi d’oro”, Sergio Magnanti, che ha accolto l’invito degli operai ad unirsi a loro. Oggi Magnanti è il presidente della nuova società, e ha cooperato alla realizzazione di un business plan da 11 milioni di euro e una produzione da 120 mila pezzi all’anno. Con il versamento di due milioni di euro, il 6 dicembre 2011 i lavoratori hanno sottoscritto l’atto di acquisto della parte produttiva della vecchia azienda. Ma non è stato sufficiente, dato che occorre acquistare nuovi macchinari, e che lo stabilimento, abbandonato negli anni, ha subìto danni vandalici stimati in cinque milioni di euro. Proprio nel dicembre 2011 però gli operai hanno ricevuto l’offerta di aiuto dalle istituzioni: «Un finanziamento che però consideriamo un prestito. Regione Sicilia e ministero dello Sviluppo si sono proposte di aiutarci con 5 milioni di euro», spiega Falsaperla.

Ma qui sono cominciati i guai, perché a distanza di tre anni i fondi non sono stati ancora erogati. «Nel 2011 dalla Regione ci hanno spiegato che l’erogazione era possibile grazie al Contratto di programma regionale, uno strumento che ha l’obiettivo di sostenere l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali con i Fondi europei per il mezzogiorno. Ci hanno assicurato che il bando era pronto. Non era vero e nei cassetti della Regione non c’erano nemmeno i fondi».

Il bando è arrivato solo ad agosto 2013. «Una situazione assurda – spiega Falsaperla–. Oggi stanno analizzando i documenti presentati dalle aziende che come noi hanno partecipato al bando. Suppongo che entro un paio di mesi le cose si sbloccheranno. Noi intanto stiamo a reddito zero. Ciò che mi crea rabbia è che ci hanno contattato clienti persino dagli Emirati Arabi, interessati ai nostri prodotti made in Italy. Inoltre ce ne sono anche molti in questa zona, che ci danno fiducia da tempo. Saremmo pronti a partire subito: e invece un’impresa, che potrebbe dar reddito a circa 90 famiglie, è costretta a tenere i motori spenti. Manteniamo i rapporti con i clienti, ma chiaramente più passa il tempo più si raffreddano».

Nemmeno per un attimo ai 77 operai viene un dubbio sulla loro scelta: «Perdere le speranze? Non esiste nel modo più assoluto che questa cosa non vada in porto. Preferisco questi rischi a un posto nel pubblico. Vuole mettere la soddisfazione di rientrare a casa, con l’orgoglio di avere una società che produce Pil? La crisi c’è, ma non ci fa paura. Qui a Catania io vedo tanti che si danno da fare. Secondo me il punto è che ognuno di noi si deve muovere per fare la propria parte».

Una storia simile e allo stesso tempo diversa a quella della cooperativa di lavoratori Greslab di Scandiano (Re) nata dalle ceneri di Ceramica magica. A Tempi la racconta uno degli ex dipendenti e attuale presidente della nuova società, Antonio Caselli. Greslab fino al 2008 aveva 50 milioni di fatturato e 160 dipendenti: poi anche in questo caso sono seguite una procedura pre-fallimentare, la gestione da parte del tribunale di Reggio Emilia («ma non c’era probabilmente un’idea chiara delle strategie»). Anche nel caso di Greslab gli operai si sono chiesti cosa fare: «Abbiamo iniziato a giugno 2011 in 31 soci e 6 dipendenti. Abbiamo riscattato la mobilità e ciascuno di noi ha versato una quota di 14 mila euro arrivando a circa 500 mila euro».

In questa vicenda è stato decisivo l’appoggio di Legacoop, che ha consigliato sin da subito gli operai e grazie alla quale i 31 soci hanno ottenuto «dalla finanziaria Legacoop, la Coopfond, e dalla finanziaria Csi un finanziamento nel capitale sociale di altri 800 mila euro con durata di 7 anni. Inoltre, abbiamo trovato la disponibilità di tre marchi della zona che ci hanno dato un ulteriore finanziamento a rischio, per sette anni, da 500 mila euro. Siamo arrivati a un capitale sociale di 1 milione e 900 mila euro, e il consorzio finanziario ci ha supportato ulteriormente per aprire i primi fidi con Banca Etica e Unipol». Greslab è rinata: «Nel 2011 abbiamo fatturato 4 milioni e mezzo, nel 2012 abbiamo chiuso con 8,8 milioni. Il 2013 lo abbiamo iniziato in 61 persone, contando i nuovi assunti, di cui 35 soci: l’anno scorso abbiamo fatturato 15 milioni di euro».

Salari più bassi e niente festività
Caselli spiega anche quali sono altri punti caratteristici di questa esperienza: «La strada che abbiamo intrapreso è stata quella di produrre per altri marchi. Abbiamo fatto un periodo di formazione iniziale per riqualificarci, poi abbiamo scelto dei prodotti particolari e ci siamo riposizionati sul mercato scegliendo ciò che sapevamo far meglio con le nostre competenze». Un’altra peculiarità di Greslab – un fattore che secondo Caselli ha contribuito al successo – è che tutti i soci hanno accettato di iniziare con stipendi più bassi rispetto a quelli percepiti prima, e che per garantire equità le paghe più alte nella nuova cooperativa siano al massimo il triplo dei salari minimi.

Inoltre «abbiamo aumentato le ore di lavoro per ottenere maggiore produttività, e non chiudiamo mai durante le festività. Tutti abbiamo affrontato sacrifici, e abbiamo rischiato quello che avevamo senza sapere come sarebbe andata. Ma mi sentirei di consigliarla a tutti quelli che sono in cassa integrazione o in crisi, è una bellissima esperienza e ci sta insegnando a prendere decisioni insieme, a vederci pari in mezzo a tanti. Inoltre un’esperienza di questo tipo ti impone di ragionare con una prospettiva per il futuro, anche per serietà verso gli investitori. È un’avventura che ti trascini dentro in ogni momento».

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1 commento

  1. francesco taddei

    splendido esempio. quando non ci sono gli “istituzionali” corpi intermedi ma ci si guarda negli occhi tra uomini le cose vanno meglio. è anche una risposta a chi crede che il sud sia solo turismo e cibo.

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