Propal fino all’ultima schwa
A Bergamo Pride «non saranno tollerate bandiere israeliane o inneggianti alla simbologia connessa allo Stato di Israele». Racconta Luigi Mascheroni sul Giornale: «Siamo così vicini al Gay Pride di Bergamo Bèrghem, terra di bestemmie sfarzose, di polenta e cünì, di Madonne e culatùn che ogni anno, da anni, riceviamo l’invito a parteciparvi».
E così l’invito è arrivato anche quest’anno, ma con una marcia in più: «Fossimo un giornalaccio di estrema destra titoleremmo: “Ai gay fanno schifo gli ebrei”», continua l’editorialista a proposito della «crociata della sinistra fricchettona e radicale contro l’unico Stato del Medioriente in cui i gay possono sfilare in pace», nonché dell’ormai vecchio adagio: a fare la gara a discriminare, alla fine c’è sempre uno più discriminato che ti discrimina.
Il Pride di Bergamo e «la follia contagiosa di Butler»
L’upgrade – dal tragico 7 ottobre – è il torneo di chi dall’attivismo Lgbtq all’ambientalismo va “palestinizzando” le ossessioni occidentali. Sul Foglio Giulio Meotti l’ha chiamata «la follia contagiosa di Judith Butler»: la filosofa della teoria gender assicurava all’Alma Mater di Bologna che «a Gaza c’è un notevole movimento queer» e tutti gli alfieri dei pronomi plurali giù ad applaudire. Poco prima alla Biennale, padiglione spagnolo, l’artista peruviana Sandra Gamarra Heshiki (una dei tantissimi che nella 60esima edizione hanno fatto di Palestina arte contemporanea), paragonava la condizione degli abitanti della Striscia alla discriminazione delle persone transgender con una citazione di Paul B. Preciado: «Transbody sta all’eterosessualità normativa come la Palestina sta all’Occidente: una colonia la cui estensione e forma si perpetuano solo attraverso la violenza».
Diciamocelo: c’entra nulla la sofferenza di Gaza con l’insopportabile santificazione dell’attivismo Propal, ma si fa prestissimo a dire “Gaza” per rivendicare la supposta superiorità morale delle minoranze e delle élite che le sostengono. Il punto, dagli atenei alle mostre d’arte, non è certo la guerra (e quindi la pace), bensì fare della “Palestina libera” l’occasione per pavoneggiare la propria rettitudine morale nei paesi più progressivamente aggiornati.
Propal di lotta e di salotto
Prova ne è stata l’Eurovision e l’incazzatura devastante espressa dalla comunità Lgbtq inglese nei confronti di una loro icona culturale: Olly Alexander, reo di aver deciso di cantare in Svezia nonostante tra i partecipanti ci fosse anche una ragazza israeliana. Nonostante i Queer for Palestine gli avessero intimato di non farlo. Nonostante il suo ritiro, stando almeno all’allarmata narrativa degli attivisti, avrebbe potuto fare la differenza per Gaza e chissà che altro. Già: che altro?
Né per Gaza né per altro. Nella narrazione degli attivisti la “Palestina” non è un luogo: è una parola d’ordine, «dichiararsi rumorosamente “per la Palestina” è poco più che una proclamazione della propria decenza, della propria idoneità a far parte del proprio gruppo culturale – ha scritto Brendan O’Neill su Spiked –. Indossare una spilla palestinese, o meglio ancora una kefiah, e rifiutarsi assolutamente di comprare arance israeliane non sono posizioni politiche nel senso antiquato: sono segnali inviati ad altri membri della società educata. “Sono uno di voi”, dicono. Il boicottaggio di Israele deve essere il primo boicottaggio della storia in cui lo scopo non è tanto quello di effettuare un cambiamento nel mondo concreto quanto quello di massaggiare l’ego in quello emotivo».
«La liberazione del grasso e della Palestina vanno di pari passo!»
Che c’entra altrimenti Gaza con l’assalto, durante la veglia Pasqua, alla cattedrale di St. Patrick degli attivisti per il clima al grido “Palestina libera”, o la protesta contro il “cambiamento climatico” e sostegno della Palestina al British Museum, o l’occupazione del MoMa di New York? Cos’hanno in comune i “Fattiest for a free Palestine” (grassi per una Palestina libera) o gli “Animal Rights Activists for a free Palestine” (attivisti dei diritti animali per una Palestina libera) con la storia degli abitanti (e degli animali) della Striscia?
Proprio nulla, li accomuna l’odio antisraeliano e, ovviamente, quel non so che di paranoia tutta occidentale: «La solidarietà palestinese non è una questione di nicchia. La liberazione del grasso e la liberazione della Palestina vanno di pari passo!», sostengono i primi, capeggiati dall’attivista queer “palestinese-americana” Hannah Moushabeck, che ha dato vita al movimento (e a un sacco di merchandising) «quando ho scoperto che mancavano indumenti di protesta oversize». I secondi affermano invece convinti che Israele usi il veganismo per giustificare l’oppressione palestinese: «“Non commettere errori: Israele sta usando il veganismo come una facciata per nascondere il programma di terrore dei suoi militari, sorvolare sull’occupazione della Palestina e appropriarsi della cultura e delle tradizioni regionali che precedono Israele di centinaia se non migliaia di anni”».
Propal à la Greta o in salsa vegana
Lanciare e firmare appelli per la liberazione della Palestina, accusando Israele ora di pinkwashing ora di greenwashing, sembra diventata la ragione di vita delle organizzazioni Lgbt e degli attivisti climatici: c’era anche Greta Thumberg in piazza contro l’Eurovision, iinfuriata con la kefiah al collo perché a una ragazza israeliana era stato permesso di cantare nella sua Svezia: «Ancora una volta, i giovani stanno mostrando al mondo come reagire», ha dichiarato alla Reuters la ragazzina che dopo il pogrom del 7 ottobre ha twittato che avrebbe “difeso Gaza”, mentre alle sue spalle un corteo di 12mila manifestanti sventolava bandiere palestinesi e lanciato razzi fumogeni verdi, neri e rossi cantando “Israele è uno stato terroristico” e “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. Che c’entrano i suoi slogan “cacciamo il sionismo” urlati poi in manifestazione a Stoccolma con la riduzione delle emissioni di carbonio? E i suoi articoli “Non esiste giustizia climatica senza diritti umani” con la prevista fine del mondo entro un decennio?
Di quei colonialisti dei collettivi che occupano le università per sostenere Hamas si dice sempre benissimo (solo Caitlyn Jenner, alla nascita Bruce, ha suggerito di mandarli a manifestare a Gaza, ma i transgender che sostengono Trump non contano): altrettanto dei “Black Lives 4 Palestine”, “Queer artist for Palestine”, “Queer Cinema for Palestine”, “Vegans for Palestine”, “Trans 4 Palestine” e compagnia “intersezionale dell’attivismo” cantante. I cortocircuiti sono notevoli: secondo Dawah Man, al secolo Imran Ibn Mansur, influencer e predicatore islamico britannico-pakistano, «La Palestina non vincerà per colpa dei gay» e certamente, come ricordava Douglas Murray sullo Spectator, ripreso da molti mentre in rete correvano le immagini del cadavere di Ahmad Abu Marakhia – 25enne palestinese fuggito e accolto in Israele perché omosessuale e poi rapito e decapitato appena rientrato in Cisgiordania, il suo corpo fatto girare per le strade di Hebron -, «la battaglia per i diritti dei gay si ferma ai confini dell’islam».
La bandiera della Palestina sul Duomo, il veto di quelle “israə l!ane” al Pride
Allora a proposito di diritti Ivan Scalfarotto twittò: «Si dimentica che Israele è l’unico porto sicuro nella regione». Era il 2022. Oggi, dopo il sobrio appello alla distruzione dello Stato di Israele e l’apologia di sharia e jihad dell’imam Brahim Baya nella sede di Palazzo Nuovo dell’Università di Torino occupato dagli studenti pro Palestina, sulla facciata del Duomo di Milano un candidato alle Europee con Alleanza Verdi e sinistra, Stefano Apuzzo, ha deciso di srotolare una bandiera della Palestina di dieci metri per quattro tra gli applausi dei Propal felici di twittare “Oh mia bela Palestina“. Il Pride di Bergamo dichiara dal suo account Instagram di schierarsi apertamente con il popolo “paləstinəsə” e contro il “genØcid!o”, le bandiere “israə l!ane” e “!sraə lə” (sic) . Chissà cosa pensa l’islam radicale guardando la cattedrale di Milano e la schwa di questa gara all’ultima discriminazione e a palestinizzare ogni santa paranoia occidentale.
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