Israele. «Abbiamo visto l’orrore, ma anche l’eroismo di chi si è sacrificato»

Di Giancarlo Giojelli
11 Dicembre 2023
I racconti dei sopravvissuti all'attacco di Hamas del 7 ottobre. «La gente correva verso i rifugi, ma non c’era posto per tutti, i terroristi li colpivano come bersagli». Viaggio a Okafim, a otto chilometri da Gaza

Israele. I riflettori del circo mediatico che illuminano la scena Medio Oriente illuminano il dramma di Gaza e dei suoi cittadini sotto i bombardamenti e la sorte degli ostaggi in mano ad Hamas, ma c’è un luogo poco conosciuto teatro di eventi che possono aiutare a capire quello che è accaduto e sta accadendo.

È Ofakim, una città di 40 mila abitanti a soli otto chilometri da Gaza, che apre la strada verso il deserto del Negev, verso le sue avveniristiche centrali solari, le fattorie idroponiche, Beersheva, la capitale dell’hi-tech più avanzato al mondo, il deserto che Ben Gurion aveva scelto come sua residenza e voleva farne il futuro di Israele: farlo fiorire come promesso da Dio. È un luogo del futuro, fondato nel 1955, dove negli ultimi trent’anni anni sono arrivati più di ventimila immigrati dall’Ucraina e dalla Russia. Una città che si sentiva al sicuro, nonostante la vicinanza con Gaza, tanto che non è protetta da un presidio militare e ha solo una stazione di polizia. «Poco lavoro – mi dice il comandante -, qui non ci sono delinquenti, qui si lavora e si vive in pace».

«Le ultime parole di mio marito»

Non è stato cosi il 7 ottobre. I terroristi sono sciamati da Gaza a bordo di auto e Suv e moto di grossa cilindrata: quasi tutti gli agenti erano a quattro chilometri di distanza a sorvegliare il festival musicale assaltato da Hamas. I guerriglieri sono arrivati lungo la strada principale di Ofakim, Hativat Etzioni Street, una lunga via ora fiancheggiata da tante villette crivellate dai colpi dei mitragliatori, sfondate dai razzi lanciati dagli RPG7. Chiunque incontriamo ha una storia da raccontare, mostra le foto dei cittadini uccisi appese alle porte della case, sono più di cinquanta. Hanno resistito per ore come eroi alla furia dei terroristi, donne e bambini chiusi nei pochi rifugi, segno della illusoria sicurezza in cui vivevano gli abitanti. Parlano in una bella giornata di sole, come risvegliati da poco da un incubo.

«È come se avessimo visto un orrendo film dell’orrore, ma i protagonisti eravamo i noi» ci dice una donna, Shoshi Hatuel, 40 anni: «Io stavo dormendo con mio marito, mi ha svegliata, c’era un allarme. Le sirene suonavano. Siamo usciti di corsa, senza scarpe, verso il rifugio distante 50 metri. Poi silenzio e ancora un altro suono, diverso, molto più forte. Faceva male alle orecchie. Mio marito ha detto: “Forse sono petardi lanciati da ragazzi”. Sono le ultime parole che ha detto. Lo hanno ucciso. Mi sono nascosta in casa, i terroristi cercavano nelle stanze, ma non mi hanno vista. Ho aspettato senza muovermi per venti ore, venti. Senza cibo né acqua e ho sentito i terroristi correre sul tetto. Dopo quasi un giorno, nella notte, sono arrivati i soldati. Io sono salva ma mio marito è morto. Il suo corpo è rimasto per 20 ore sulla strada. I bambini qui ora vivono nella paura, nelle case ci sono i buchi dei proiettili ovunque. E non siamo ancora riusciti a trovare qualcuno che ci aiuti a costruire un un rifugio».

«Non so come mi sono salvata»

Shoshana Moyal, 52 anni, è la sua vicina di casa. «Sono corsa verso il rifugio mentre il rumore delle sirene veniva sopraffatto da un rumore più forte, faceva male alle orecchie. Un’amica mi ha fermato, urlava: “No, no, lì ci sono i terroristi”. Ho provato a tornare indietro, ma sulle scale di casa c’era un uomo con un lanciarazzi. Il rumore che ci assordava era quello delle bombe e dei colpi di kalashnikov. Ho sentito venti bombe esplodere intorno a me. Lanciavano granate. C’era un poliziotto, Israele Chana: ha sparato verso i terroristi, lo hanno ucciso. Ecco la sua foto sulla strada. La gente correva verso i rifugi, ma non c’era posto per tutti, i terroristi li colpivano come bersagli. Uno di loro si era arrampicato sul tetto della Sinagoga, colpiva tutti quelli che cercavano rifugio nel tempio. Mi sono nascosta sotto le scale, non so come mi sono salvata».

Era un sabato mattina quel giorno, tutti erano a casa, molti sono usciti con qualche arma e con coltelli per affrontare i terroristi: sono stati uccisi. Ma il loro sacrificio non è stato vano: hanno rallentato la folle corse omicida di Hamas, dando il tempo ai loro familiari di raggiungere i pochi rifugi dove hanno atteso per molte ore l’arrivo dei militari israeliani. Dai racconti dei sopravvissuti si capisce che qualcosa sicuramente non ha funzionato nel sistema di sicurezza, i militari sono arrivati dopo troppo tempo, ma i terroristi o erano fuggiti con gli ostaggi o si erano nascosti nella zona pronti a colpire di nuovo, a sorpresa.

«Non ha senso ucciderci»

C’è una casa dalla finestre chiuse, qui una coppia di anziani, Rachel e David Edry, si sono visti piombare i guerriglieri in casa: cinque uomini armati con mitra e bandana verde di Hamas sulla fronte. I due anziani ebrei non hanno perso la calma, hanno offerto loro dolci e bevande, hanno cominciato a parlare. La donna li ha convinti che gli altri terroristi erano andati via e che se fossero usciti sarebbero finiti in mano ai soldati che stavano arrivando. «Non ha senso ucciderci – ha detto – state qui, vi aiuteremo e quando la situazione sarà calma forse riuscirete a tornare a Gaza». Il figlio di Rachel è un agente di polizia, lei è riuscita a chiamarlo al telefono, lui ha cercato di raggiungere i genitori ma ci sono volute quindici ore prima che l’incubo finisse. Un commando di agenti è arrivato, ha fatto irruzione nella casa uccidendo i miliziani.

Rachel e David ora sono lontano. La vita ad Ofakim sembra essere tornata ad una strana normalità. Alberi verdi e le foto dei 50 caduti e degli ostaggi ancora in mano ad Hamas, negozi aperti e villette vuote con ancora le capanne della festa di Sukkot abbandonate, tetti sfondati ricoperti di teloni e bambini che vanno a scuola con i grembiuli blu. Si sentono ritmati i suoni delle esplosioni a Gaza. Si vive con l’orecchio teso a sentire il suono delle sirene di Iron Dome.

«Gli eroi sono morti»

Yezechel Israel si definisce un ebreo religioso, vede in quello che è accaduto un segno del Destino: «Abbiamo visto l’orrore, piangiamo i morti. Ma vediamo anche tanti segni e miracoli: l’eroismo di quanti si sono sacrificati per dar modo a mogli e figli di mettersi al riparo. Questo vuol dire che dobbiamo continuare a vivere qui, in letizia, pace e unità. Gli eroi sono i morti, ma anche tutti gli abitanti sono eroi, sono messaggi che Dio ci ha mandato. La guerra finirà e vivremo in pace. Ma solo con l’aiuto di Dio».

I rumori delle guerra raccontano una storia lontana dalla speranza e dalla fede di Yezechel che ci invita a pregare con lui. Penso che è lo stesso invito lanciato dal Papa e dai Patriarchi cristiani al mondo intero.

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