Si è svolta il 22 novembre scorso l’inaugurazione del Camplus Bononia, una residenza universitaria nella fascia tra il centro e la prima periferia di Bologna, vicino a Porta Zamboni, impressa nella mente dei cittadini felsinei per l’accattivante impatto cromatico della struttura. All’inaugurazione, davanti ad autorità cittadine e nazionali e a duecento studenti, il ministro Lupi, il sottosegretario all’Istruzione Galletti, il rettore Dionigi, il sindaco Merola, il direttore del Camplus Bononia Piergiacomo Sibiano e il presidente della Fondazione Falciola, titolare dell’opera, Maurizio Carvelli. Ne parliamo con quest’ultimo, che è anche amministratore delegato della Fondazione Ceur, il soggetto gestore, proprietario della rete Camplus.
Il Bononia non è passato inosservato…
L’impronta cromatica interna ed esterna del Camplus serve a renderlo riconoscibile in tutta la città. Ha il compito di sorprendere chi lo vede e chi ci vive. Il cromatismo vivace, insieme a una bellezza delle forme, alla cura dei dettagli, all’esposizione dei reperti archeologici trovati durante gli scavi, al fatto che l’immobile è immerso nel verde, agli spazi collettivi, all’alta tecnologia che lo caratterizza – è totalmente cablato, monitorato in tutte le sue aree ed energicamente autosufficiente –, tutto ciò rende questa residenza una delle più belle in Italia e migliori in Europa. Abbiamo citato Aristotele dicendo che la conoscenza inizia dalla meraviglia, per spiegare lo scopo dei caratteri così sorprendenti della struttura: non sono fini a se stessi, ma servono a favorire il cammino universitario degli studenti e a dire qualcosa alla città.
Avete lanciato uno slogan: “prendersi cura”. Cosa vuol dire?
Per noi “prendersi cura” è letteralmente quello che facciamo tutti i giorni dentro le residenze, cioè la cura della persona, del suo percorso di studente, del suo talento, dei suoi interessi, delle sue domande. Lo facciamo attraverso un percorso preciso che coinvolge un direttore, dei tutor, un board di professori e una struttura che seguono l’andamento accademico e soprattutto gli interessi e i bisogni di tutti gli studenti. Questo fin dall’inizio, da quando il giovane entra a quando esce e incontra il mondo professionale. Ma la cosa più interessante è che questo prendersi cura è proprio una concretezza e ciò è importantissimo in un mondo dove i figli, i giovani, sono completamente diversi dalla generazione dei genitori e presentano una forte domanda di soggettività, di nuovi valori. Ciò che viene messo in discussione dalla crisi è il futuro. Come si reagisce a questa mancanza di futuro che impaurisce più i genitori dei figli? Si reagisce con una domanda di più realtà e meno illusione, meno egoismo e più collettività, più bisogno sociale, più socialità. Più apertura a qualcosa che non sia di proprio esclusivo interesse. Questi valori emergono tanto più se c’è qualche maestro che si china su di loro e li accompagna in questo percorso. C’è bisogno, appunto, di gente adulta, grande, che accompagni in questo futuro incerto senza l’ottimismo facile dei genitori, ma con la concretezza del day by day.
Prendendo spunto da questo slogan “prendersi cura”, il rettore Dionigi ha citato l’immagine di Telemaco, come sostituto del mito di Edipo, che vive l’assenza del padre con ansia, ma lo attende. I giovani sono così, nell’attesa di qualcuno che dimostri loro attenzione. Quando questo avviene, rinascono. Cosa le suggerisce questa immagine?
Se uno studente universitario è bravo e ha qualità, il tema è chi aiuta a far sviluppare queste qualità. Da questo punto di vista, il dramma è che se lo studente si trova in una classe di docenti il cui problema è solo quello di affermarsi nella platea accademica, rischia inevitabilmente di non avere rapporti decisivi – come quello tra maestro e discente – che lo possano lanciare nella realtà. Per questo i giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere. Il punto è chi è in grado di accenderle. L’equivoco è che per formare una persona sia sufficiente riempire il vaso con nozioni e tante iniziative. Invece il problema non è aumentare le informazioni, incrementare le nozioni; il principale problema è tirare fuori il meglio dagli studenti. Il talento infatti non coincide solo con quello che si sa fare o che abbiamo imparato, ma con quello che si è. Da questo punto di vista tirare fuori il meglio di sé porta molti studenti universitari a scoprire e a fare un lavoro che magari non coincide con quello che hanno studiato.
L’estero e l’aiuto all’inserimento nel mondo del lavoro sono sempre stati presenti, ma ci state puntando molto.
In tutti i Camplus sono presenti studenti stranieri (ci sono 30 americani al Bononia). Il rapporto con l’estero è decisivo sia per la presenza di studenti stranieri in Italia sia per gli studenti italiani che dovranno andare fuori. Noi abbiamo una chiara direzione strategica che è quella di procurare lavoro attraverso stage. Riteniamo che andare all’estero non sia uno scappare, ma sia fondamentale per iniziare seriamente un lavoro. Oggi è straordinariamente importante.
Com’è cambiata in questi decenni la vostra lettura dei bisogni degli studenti?
I bisogni sono cambiati. Bisogna stare attentissimi a quello che accade nella realtà. Se la realtà ti dà uno spunto per cominciare qualcosa, lo devi cogliere. Non è “adesso mi metto a pensarci”, è un’attenzione all’imprevisto.
Qual è il metodo e l’obiettivo del vostro educare i ragazzi?
Il metodo è quello del one to one inteso come attenzione ai singoli. L’obiettivo è farli crescere, renderli pronti per affrontare la realtà, metterli nelle condizioni di poter credere in se stessi.
Qual è il bilancio di più di 20 anni di Fondazione Ceur, degli esiti in termini umani, di inserimento nel mondo del lavoro, di nesso con la Fondazione, di creazione di cose nuove?
Ormai ci sono più di 2.500 studenti passati dentro i Camplus e almeno 50 mila nel caso di Falciola perché noi ospitiamo gli studenti universitari anche con Fondazione Falciola, non con questo metodo, ma con la semplice residenzialità. Ma anche attraverso la semplice residenzialità il grande risultato è avere permesso a tanti studenti di poter fare l’università in modo adeguato. Il risultato migliore è che questa gente ci cerca ancora, valutando nella Fondazione o nei direttori una rete di relazioni e di opportunità. Le persone che sono passate nei collegi sono il nostro migliore sponsor per i nostri nuovi clienti.
Il ministro Maurizio Lupi ha segnalato come un punto positivo nella vicenda politica del nostro Paese ciò che ha permesso il Camplus Bononia.
Questa inaugurazione ha mostrato come nel tempo una realtà partita dal basso trent’anni fa per risolvere il problema degli studenti fuori sede a cominciare dal mio e dei miei amici, creando un’opera – le Fondazioni Ceur e Falciola – ha poi avuto uno sviluppo grazie a un percorso di sussidiarietà, che è accaduto attraverso lo Stato che ha finanziato il pubblico, ma anche il privato (L. 338 del 2000) e ha considerato il privato un attore finanziabile. Poi nel caso del Camplus Bononia vi è stato il Comune di Bologna che ha considerato quest’opera prioritaria, facendo un accordo di programma che ha consentito a tutti i soggetti operatori – pubblici e privati – di poter condividere un percorso comune di riqualificazione urbana di un’area. Questa idea sussidiaria considera il privato come partner, non come nemico. Mentre noi parlavamo al convegno, fuori c’erano una trentina, ma solo trenta, studenti che contestavano questo collegio. Qui l’80 per cento degli studenti hanno borse di studio e quindi sono in condizioni indigenti o, comunque, non hanno mezzi economici adeguati. Cosa contestavano i trenta? Che è un collegio in cui si paga molto? No, contestavano che noi siamo privati. Perché c’è ancora questa logica. Bene. Cosa fa la stampa o la classe dirigente di questo paese? La notizia più importante non è l’inaugurazione del collegio, è il caos dei trenta ragazzini. Vecchia logica conservativa che tende a non guardare il positivo, un positivo che può venire fuori da tutti, da un privato che fa un servizio pubblico. Per questo segnalo che il problema principale del nostro paese non è, come a volte vogliono far credere giornali e intellettuali, la politica, ma la classe burocratica che, come ho potuto notare in altri casi, per esempio nel campo fiscale, è impermeabile a ogni cambiamento che la realtà esige. Questi, come quei ragazzi strumentalizzati, non conoscendo come stanno le cose o conoscendole in maniera subdola, preferiscono seguire l’idea che hanno loro di realtà, sacrificando quello che c’è di positivo. Il problema è che ci sia una classe burocratica intellettuale e dirigenziale in grado di aprire gli occhi. Più realtà e meno illusione.