
Articolo tratto dal numero di Tempi di gennaio 2019.
Lo trovarono morto riverso sul selciato. Dopo qualche notte all’albergo della Luna, finì con i gomiti sulle ginocchia e una spada piantata nel braccio. Overdose. Al cimitero, la vedova teneva per mano i due bambini per dare l’ultimo saluto al padre. Poiché i quattrini erano pochi, quel ragazzo non ebbe nemmeno la ventura di finire sottoterra, ma si dovette tumularlo a muro, in una di quelle cellette in alto, che costano poco. Infilata la bara nel loculo, un muratore s’arrampicò sulla scala armato di mattoni, calce e cazzuola per finire il lavoro nel silenzio generale, quello che non è più rotto nemmeno dal bisbigliare dei pateravegloria ma solo dal frinire di grilli e cicale. E poi successe questo: la vedova porse al manovale una rosa, chiedendogli di metterla nel loculo prima di fissare la copertura. Quello l’appoggiò sulla scala e iniziò il suo mestiere. Ma quando s’accinse a sistemare l’ultimo mattone, evidentemente dimentico del fiore, la quiete del camposanto fu spezzata dal tremendo grido della vedova: «La rosa! La rosa!». Un urlo violento: persino grilli e cicale parvero silenziarsi nell’istante in cui il muratore appoggiò il fiore nella tomba.
Perché quel grido? Perché curarsi tanto d’una rosa? Quanto sarà durata dietro quei mattoni, al buio e senz’acqua? Pochi giorni e sarebbe appassita. Pochi mesi e sarebbe stata dimenticata. Pochi anni e sarebbe diventata cenere. Eppure. Eppure c’è qualcosa nella natura umana che non s’arrende alla finitezza, all’effimero. Anche se sappiamo di non avere un destino molto diverso da quello della rosa, ogni attimo chiediamo un “dopo”. Ogni attimo chiede l’eternità. Noi siamo quel grido. Quand’anche non esistesse un “dopo”, noi non potremmo smettere di essere quell’urlo, alfa e omega della nostra condizione (perché anche quando usciamo da ventre di donna sputiamo sangue e strilliamo al mondo la nostra presenza).
Nel racconto omerico, dopo dieci anni sull’isola di Ogigia, Odisseo inizia ad avere nostalgia di Itaca e di Penelope. Purché non parta, la dea Calipso gli offre l’immortalità, il dono più prezioso che possa essere fatto a figlio d’uomo. Eppure. Eppure Odisseo affronta l’alto mare, torna a Itaca, rifiuta il generoso baratto.

Nell’intervista a Mark Gasson pubblicata nel numero di gennaio di Tempi, il ricercatore inglese che s’è fatto impiantare un microchip nella mano prefigura un futuro in cui «l’uomo si fonderà con la macchina riuscendo così a superare i suoi limiti biologici». La posizione di Gasson è, al tempo stesso, schietta e raggelante. Siamo esseri limitati, il nostro corpo presenta dei difetti, la tecnica ci aiuta a superarli, perché non goderne, migliorarci, implementarci, aumentare le possibilità di una compenetrazione tra uomo e macchina? Il meraviglioso ingegno umano ci ha condotto a elaborare congegni sempre più sofisticati che ci aiutano a debellare malattie, a rendere la vita più semplice e smart, più comoda, emancipandoci un poco da questa leopardiana natura matrigna e spostando un po’ più in là il momento del verdetto finale. Chip ergo sum.
Ma se scaviamo un po’ più a fondo nelle parole di Gasson troveremo che sono figlie del concetto tutto moderno di meaningless life, vita senza senso, e dunque da spremere tutta qui e ora, al meglio delle possibilità, perché no? C’è questa barriera della morte che non possiamo cambiare, allora cambiamo l’uomo. Aprire l’auto senza le chiavi è una bella comodità, e ordinare un figlio senza nemmeno concepirlo evita un sacco di scocciature. E pazienza per le madri surrogate, è la vita che ci impone di vivere come cuculi nel nido altrui. Avendo ormai noi perso ogni riferimento al Cielo, c’accontentiamo dei surrogati promessi da questa Calipso terrena che è la tecnica moderna, la quale non ha più nemmeno l’ardire di offrire l’immortalità, ma almeno un comodo prolungamento della nostra villeggiatura tra l’alfa e l’omega.
Ma noi non abbiamo solo limiti biologici, noi siamo un limite esistenziale: siamo l’urlo per la rosa nel cimitero, ed è la nostra fortuna, se ci pensate. Perché è quello che non ci fa accontentare delle antiche e nuove promesse di destini postumani. Come Odisseo preferiamo affrontare il viaggio verso Itaca. O che da Itaca qualcuno affronti il viaggio verso di noi, per offrirci in dono non l’immortalità, ma l’eternità.
Foto rose da Shutterstock