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Perché dobbiamo sperare in un successo di Macron

Incombe un settembre complicato, con il lavoro da riformare e la sinistra del bolivariano Mélenchon che fa la voce grossa in una materia incandescente, in sintonia con i lepenisti

Giuliano Ferrara
08/09/2017 - 1:00
Esteri
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macron-ansa

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Il problema dell’Europa è sempre lo stesso: la carne troppo grassa della Germania (la definizione è di Jean Genet, quando il poeta difendeva i terroristi negli anni Settanta) e l’incostanza irritabile dei francesi. Emmanuel Macron, che è la rivoluzione sulla base di una minoranza elettorale di partenza del 24 per cento e con le idee e i progetti di una esigua minoranza liberale ed europeista che ha sempre suscitato diffidenza e astio nell’Esagono, ha una caduta di popolarità dopo il breve stato di grazia seguito alla sua spericolata elezione. Secondo l’Economist, a parte qualche errore come il licenziamento frettoloso di un generale ciarliero ma popolare e il tentativo di introdurre uno statuto da Première Dame per Brigitte Trogneux, la consorte, Macron paga il blocco dei salari del settore pubblico, una decontribuzione che tocca le pensioni e una defiscalizzazione che premia fra l’altro le grandi ricchezze. Ha vinto perché nessun francese, l’esprit commerçant insegna, voleva che gli si toccasse il portafogli in euro, ma i portafogli degli altri, specie se pesanti, non attraggono simpatie sociali, anche quando la ratio del riassesto di bilancio fondato sul contenimento della spesa e non su un inasprimento delle imposte si vede a occhio nudo.

Incombe un settembre complicato, con il codice del lavoro da riformare, i sindacati all’erta nonostante un ciclo di trattative accurato e gestito con meticolosità del governo di Edouard Philippe, e la sinistra anticasta del bolivariano, chavista e maduriano Mélenchon che fa la voce grossa in una materia incandescente, in sintonia con una destra lepenista colpita ma non affondata dall’insuccesso di Marine. La sempre più probabile affermazione della cara Angela a Berlino dovrebbe essere un fattore di stabilità e di equilibrio, in un clima di ripresa che sembrerebbe strutturale, ma senza una Francia in cui un potere autorevole e decisionista spinga per una vera modernizzazione pro mercato, con le caule di uno Stato forte e interventista, tutto diventerebbe più disagevole e l’asse di una ripresa duratura e innovatrice sarebbe scompaginato, malgrado la penosa debolezza di Londra nel negoziato sulla Brexit, ora che il Labour ha scelto di battersi comunque per preservare i legami del mercato unico.

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È vero che l’opposizione politica e parlamentare a Parigi è in briciole, e resistono solo le estreme che hanno un esteso diritto di tribuna ma non di più, visto che gaullisti e socialisti sono alla frutta e la ricomposizione di quelle famiglie politiche deve scontare probabili conflitti devastanti e altre scissioni. È anche vero che Macron ha azzeccato il punto con l’idea di una presidenza che cerca di fare molto e parlare poco, sopra tutto con la stampa querula e malfidata, affida al ruolo di sicurezza e di politica estera del presidente il grosso dell’aura di popolarità che di fronte a successi strategici i francesi non hanno mai fatto mancare, e sembra in grado di fronteggiare le oscillazioni dei sondaggi meglio di quanto non abbiano fatto qualche anno fa i pettegolezzi e gli immobilismi di un François Hollande senza rotta e senza idee. Resta però il fatto certo che quando la Francia, in specie in un momento di ritrovata ambizione, si mette di malumore, per non dire che s’incendia e si paralizza, all’Europa politica viene a mancare qualcosa di fondamentale.

Non sogni ma solida produttività
Il successo riformatore di Macron, con tutti gli incerti del mestiere e della congiuntura, sarebbe il perno che fa ruotare l’ingranaggio di una globalizzazione liberale forse incapace di far sognare ma certo attrezzata per un nuovo ciclo di benessere e di produttività, dopo le turbolenze degli anni trascorsi e la grande fumata indiana dei gruppi antisistema dovunque in corsa per un ritorno a un incerto passato nazionale. Anche le elezioni italiane, per quanto modeste e in un quadro di modesto ripiegamento rispetto alle ingegnose trovate e alla spinta energetica dello statista di Rignano sull’Arno, saranno influenzate dal giro del perno francese.

Se Macron desse un segno concreto di potercela fare, e di tenere botta di fronte alle controspinte che sempre premono sui tentativi di cambiamento, anche per un paese come il nostro, senza ballottaggio, senza doppi turni elettorali, senza istituzioni decisionali flessibili e capaci di accogliere l’imprevisto e gioviale affermarsi di cose nuove, le cose potrebbero mettersi benone.

@ferrarailgrasso

Foto Ansa

Tags: brexitemmanuel macronFranciagiuliano ferraramelenchonUnione Europea
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