Perché il corpo di Marina Abramovic è arte e il nostro no?
Nel 2012 è ancora molto trendy rispondere alla domanda “Cosa fai stasera” con un bel “Vado a una mostra”. Ancora meglio è dire: “Vado a una mostra in cui il pubblico è coinvolto, è parte interattiva e non deve solo scorrere delle tele di arte moderna, da guardare con il capo reclinato da una parte a cercare di capire cosa rappresentino. Marina Abramovic è senz’altro la maestra suprema di quest’arte. L’artista serba sa infatti creare mostre che mostre non sono, perché è lei stessa l’opera d’arte a cui affida il racconto di una storia e ne racchiude il significato. Allo spettatore non resta che affidarsi all’uso che Marina fa del suo corpo, quel “corpo è mio e lo gestisco io” di femminista memoria, che la rende libera anche di sottoporlo a autolesionismo. Allo stesso tempo racconta a Camilla Baresani, che la intervista estasiata sulle pagine di Io Donna, che si sente piena di salute, che non fuma, non beve e fa ginnastica.
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Eppure al suo corpo fa di tutto dal 1973, anno di nascita della sua carriera pubblica di artista. In Rythm 0 il pubblico aveva diritto assoluto sul suo corpo. Nel caso in cui qualcuno presente in sala fosse stato preda di vene vampiresche, avrebbe potuto succhiare il sangue fuoriuscito dai tagli delle lamette che l’artista si era fatta. In Rythm 5, la Abramovic si taglia capelli e unghie e li brucia in una pira su cui poi cammina. Siccome respirare i fumi di un incendio tanto bene non fa, nemmeno se sei un’artista, la donna sviene (forse Stefano Boeri, che si è sentito male all’anteprima della nuova performance al Pac di Milano, The Abramovic Method voleva in qualche modo omaggiarla).
In Art must be Beautiful del 1975, si spazzola i capelli con due pettini in modo ossessivo e compulsivo fino a che, esausta, per sbaglio si colpisce con gli strumenti in volto e si ferisce: Marina, lo sanno tutti che sono solo cento i colpi di spazzola consigliati. In Freeing the Bod, vuole a tutti i costi perdere di nuovo i sensi e dopo essersi fasciata la testa con una sciarpa nera, balla per otto ore a ritmo di un tamburo. Roba da far invidia ai migliori nottambuli del sabato sera. Nel 90, in Dragon Heads, si fa quindi circondare da cinque pitoni tenuti a stecchetto da due settimane. Nel 97, con Balkan Epic, vince il Leone d’oro alla biennale di Venezia per aver raccontato il dramma della sua terra, l’ex Jugoslavia, attraverso una performance in cui lava ossa sporche di sangue. Infine, al Moma di New York, per ben 700 ore è rimasta seduta a un tavolo a fissare immobile e in silenzio chiunque avesse voluto sedersi di fronte a lei. Boeri aveva detto qualche giorno fa, che quelle della Abramovic non sono mostre, né opere d’arte, ma incontri. Ma quanti degli spettatori che hanno assistito ai suoi “incontri” dopo si sono chiesti “Ma mi avebbero notato di più se fossi andato stando in disparte o se non ci fossi andato per niente?”.
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