Pellegrinaggio Macerata-Loreto. L’alba dei 100 mila. Che non è una notizia ma è una speranza per l’Italia
Folla dentro e folla fuori lo stadio Helvia Recina, mentre sui grandi pannelli, in prossimità della Messa che darà il via al 37esimo pellegrinaggio Macerata-Loreto, scorrono le immagini antiche di un don Giussani giovane (anche questa “opera” pellegrina è invenzione della sua amicizia al popolo). Bambini cantano a distesa che «il Signore ha messo un seme nella terra del mio giardino». Una sfilza di preti, vescovi e porpora del cardinale Pell sostano dietro le quinte. Perbacco. Ho dimenticato l’acqua e adesso si sta affacciando l’erede di Giussani in video, don Julián Carrón, e il suo messaggio da cui discende il titolo del pellegrinaggio, sintesi dell’udienza di papa Francesco a Cl il 7 marzo scorso: “Accarezzati dalla misericordia”. Di nuovo scorrono in video prima l’immagine di un Giussani pensoso, con tre dita sulla guancia e lo sguardo scrutante. Poi, un Giussani incazzoso in cattedra. E ancora, uno sorridente, in tonaca svolazzante, nello scatto anni Cinquanta, tra le sue giessine. Una giovanissima Adriana Mascagni guarda il suo prete. Innamorata.
Squilla il cellulare. Mia figlia: «Ho preso 30 in teologia». Ma guarda che coincidenza, è la stessa di cinquat’anni fa, la teologia, Il senso religioso. Il corso giussaniano in Università Cattolica va avanti e nuove generazioni si affacciano a capire che con quelle tre premesse (realismo, ragione, moralità) in testa «non ti mette più in tasca nessuno». Avevi ragione, Don. «Portami con te». D’accordo figliola. Se trovo l’acqua ti porto. Riattacca lo zecchino d’oro. “Povera voce”. Di nuovo l’innamorata Mascagni, autrice del bel canto – «il nostro più bel canto» – amato da Giussani. Ed ecco di nuovo il Giuss, nella sua foto più celebre, inginocchiato ai piedi di Giovanni Paolo II con la fronte baciata dal Papa, appena dopo aver pronunciato in piazza San Pietro: «Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo».
Ora dal palco comunicano che lo zecchino d’oro sono i bambini della scuola di Ascoli, l’unica scuola d’Italia che grazie al puntiglio culturale della maestra e dirigente Ivana Sandrin, porta il nome del padre fondatore di Cl. Romano Carancini, sindaco di Macerata, saluta i pellegrini. «Ogni volta che la città vi incontra è felice». Ecco un vero Natanaele postcomunista in cui non c’è inganno. «Il tempo della misericordia appartiene alle comunità laiche. Viva il pellegrinaggio!». E il popolo intona la canzone più gettonata di tutto il cammino, 28 chilometri e dalla dura lingua d’asfalto. «Sapete voi che c’è nel mondo una gran casa, pieni di forza, di grazia e di gloria, è la dimora di nostro Signor».
La casa è quella di padre Douglas Al Bazi, parroco iracheno che si affaccia a Macerata con una intervista telefonica registrata da Erbil, dove centinaia di migliaia di cristiani sono profughi dalla piana di Ninive. Dice secco Douglas: «Primo, siamo cristiani, e lo siamo quando le cose vanno bene e quando vanno male. Secondo, dobbiamo smettere di lamentarci. Terzo, personalmente mi hanno cacciato, hanno fatto esplodere la mia chiesa, mi hanno sparato a una gamba, ho perso la mia comunità, sono stato rapito per nove giorni, sono sopravvissuto a due attacchi con le bombe, sono ancora sopravvissuto a un attacco alla chiesa durante la Messa: nonostante tutto questo, chi sono io per lamentarmi? Io non sono sorpreso dal fatto che ci attacchino, ma sono sorpreso per il fatto che la mia gente ancora sopravvive. E noi sopravviviamo perché apparteniamo a Gesù. Non apparteniamo a un settarismo o a gente che vuole portarci da qualche parte. Gesù è il nostro scopo».
Giancarlo Vecerrica, il vescovo di Fabriano-Matelica che rimarrà alla testa del serpentone dei centomila per tutta la notte. Carlo Cammoranesi, il giornalista che guida l’ufficio stampa e smista sul palco i testimoni dell’impresa. Ermanno Calzolaio, che dal palco dell’Helvia stadium spiega il tema e introduce gli illustri testimoni di quest’anno. Sono il trio di amici che governa il pellegrinaggio in un crescendo mozartiano.
Dopo il parroco iracheno è la volta del musulmano egiziano Wael Farouq, che racconta per immagini come la vita lo ha messo davanti a Cristo attraverso una catena di amicizie che iniziano da sua madre, passano per un santuario di Maria che unisce cristiani e musulmani in Egitto, Piazza Tahrir e il volto di una madre cristiana a cui gli uomini neri hanno preso un figlio. «Questa sera, io cammino con voi per mia madre e per la sua amica… Questa sera, io cammino con voi per la grazia e la gioia della comunione nella Vergine… Questa sera, io cammino per questi corpi puri… Questa sera, io cammino per questa donna che non sa né leggere né scrivere, che del mondo conosce solo la sponda del fiume, il campo e l’albero che fa ombra alla sua povera, primitiva casa di argilla. Questa donna ha rifiutato di maledire quelli che hanno sgozzato suo figlio in un deserto lontano, sulla costa della Libia, e ha pregato per la loro salvezza. Questa sera io cammino per questa donna, perché lei rappresenta tutta la civiltà che l’umanità ha raggiunto». E questo sarebbe precisamente tutto quello che non dovremmo mai dimenticare, quando ci alziamo al mattino e quando andiamo a letto la sera, quando saremo vecchi e quando racconteremo quello che siamo stati vivendo, e cioè «perché lei», quella donna che non sa né leggere né scrivere, «rappresenta tutta la civiltà che l’umanità ha conosciuto».
Arriva il messaggio registrato di papa Francesco. La sua allegria, la sua arguzia. «Ognuno di voi conosce la propria storia. Noi tutti la conosciamo, la nostra. “Eh, Padre, tante volte sono caduto”. Mi viene in mente quella bella canzone degli alpini: l’arte di salire non è nel non cadere, ma nel non rimanere caduto. Canta e cammina e se sei caduto, alzati. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca. E l’Angelo custode di ognuno di voi vi dica all’orecchio: “Canta e cammina!”. A risentirsi!».
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Una tradizione che era sparita
La riprendo alla larga. Ci sono persone che legittimamente possono dire di sé – come ha detto di sé domenica scorsa il fondatore di Repubblica al pellegrinaggio delle Idee della bella gente a Genova – «a sette anni ero già vecchio». E altre che possono essere giovani millenari. Per esempio il pellegrinaggio alla Santa Casa della Madonna Nera custodita nel santuario di Loreto, tradizione che dal Medioevo era andata esaurendosi fino a sparire, e poi improvvisamente ringiovanita nel giugno 1978, quando don Giancarlo Vecerrica, insegnante di religione, la ripropose a un gruppetto di studenti come gesto di ringraziamento alla Madonna a conclusione dell’anno scolastico. Nel 1978 erano 300. Nel 2015 sono 100 mila. Tra i 100 mila ci sono anch’io. E per tutti i 28 chilometri. A piedi. E neanche un piede gonfio e un latte alle ginocchia (secondo me è un miracolo).
A dire il vero ci fu un precedente. Esattamente dieci anni orsono, alla 27esima edizione, dedicata a don Giussani e Giovanni Paolo II, i due amici scomparsi nel giro di un mese l’uno dall’altro proprio agli inizi di quell’anno 2005, avevo accompagnato a Macerata Giuliano Ferrara. Era vigilia di referendum (il famoso embrione umano, salvato dall’astensione popolare e poi restituito alla selezione eugenetica dalle sentenze di una cattolicissima Corte costituzionale), eravamo stati insieme alla Messa allo stadio, batteria di partenza del cammino verso Loreto. Giuliano ci tenne un comizio e imparò le preghiere del Rosario. Poi lui trascorse la notte in albergo mentre io, come usa ancora per i testimoni ritenuti eccellenti, dissi al microfono due parole nei primi cinquanta metri di cammino. Dopo di che, alzai i tacchi, mi ritirai e ancora con mastro Elefante camminammo per altri cinquanta metri il mattino dopo, di buon ora, a pellegrinaggio praticamente concluso. Questa volta è diverso, l’interferenza che ci ha portato a Loreto è venuta dal basso.
Le regole d’ingaggio
Ci arrivo prendendola alla larga. Un pomeriggio di maggio mio figlio gioca l’ultima partita di campionato Csi. Il suo amico si chiama Elia e con il papà di Elia mi prendo un caffè in attesa che i nostri figli spuntino dallo spogliatoio. «Vabbè, sono ancora aperte le iscrizioni alla Macerata-Loreto?». E mi ritrovo in una strana compagnia di ciellini dentro Cl, autobattezzati “Amici di Zaccheo”. Un vero e proprio brand. Con tanto di logo (le famose frecce del senso religioso), felpa, t-shirt, tessera del “Fronte per la liberazione del cuore”, truppa, luogotenenti, staffette e ufficiali. Gente matta, insomma. Decido di prenderla ancora più alla larga. Niente pullman da Sesto San Giovanni. Freccia Rossa Napoli-Roma. E trenini sulla tratta Roma-Ancona. Cambio a Fabriano. Tolentino. E ultimi chilometri in pullman fino a Macerata (la sera prima avevo conosciuto altri matti ’ncopp a Posillipo, in una grossa grassa serata napoletana di chiacchiere sui destini del mondo e, soprattutto, sul dietro le quinte delle regionali in Campania). Ritrovarmi ventiquattr’ore dopo da Mergellina alle Marche è stato bislacco ma piacevole. La famiglia si faceva sentire in Whatsapp. Le figlie Gloria e Clara messaggiavano «portaci con te». Le altre due, Lucilla e Teresa, viaggiavano verso Loreto, in pullman, l’una da Como l’altra da Concorezzo.
Stando alle regole d’ingaggio fatte circolare via email dagli zacchei per l’istruzione anche del più fantozziano dei fratelli pellegrini, avrei dovuto «evitare marsupi» (non ho capito perché), tagliarmi la barba «il giorno prima del pellegrinaggio» («meglio due per evitare il prurito con il sudore»), le unghie dei piedi («almeno due giorni prima»), munirmi di tuta, maglietta a maniche corte, boxer, scarpe da tennis («morbide e collaudate»), «6 panini piccoli (6 fette di pane tagliate a metà, 2 a 2), 2 banane utili per il contenimento digestivo», ombrellino («più comodo del k-way, si suda»), 1/2 litro d’acqua («non bere tanto per evitare di dover fare i bisognini lungo il cammino»), fazzolettini di carta, 2 zainetti leggeri (uno da portare in viaggio, l’altro con i ricambio da lasciare in pullman), due paia di calzini di lana fuori e spugna. Poi, giunti allo stadio di Macerata, appena prima di partire, «mettere molta crema idratante sotto i piedi», «collirio che c’è molta polvere, ma anche lavarsi bene la faccia e gli occhi», «fare i bisognini», «stare il più possibile seduti».
La solida realtà dei piedi
Dopo di che, era già tanto se avevo uno zaino e nell’ora di sosta a Fabriano ho tentato l’acquisto di qualcosa, almeno da spizzicare, ma non sono riuscito a raggiungere nessun negozio e l’unico supermercato era indicato «a tre minuti» secondo un cartello stradale e dopo mezz’ora ero ancora lì a camminare in via Dante (al 110 c’era una tabaccheria, già che c’ero ci ho giocato una schedina da Superenalotto). Dunque, approdo in stazione a Macerata con qualche chilometro nei piedi, barba lunga, niente creme, colliri, acqua né panini. Grazie zacchei che ci avete pensato voi a rifocillarmi. Altrimenti mi sarei nutrito di rassegna stampa del mattino (solo carta, niente iPad) che mi ero portato in treno, per godermi l’intervista a Putin sul Corriere, le notizie della nuova inchiesta aperta dalla procura di Napoli sul fresco vincitore delle regionali e soprattutto lui, lo splendidido impresentabile vincitore Enzo De Luca, che rimanda tutti (a cominciare da Rosy Bindi) a quel paese, già promettendo ai napoletani (articolone di Repubblica in cronaca locale) “Condono per 80 mila alloggi abusivi”. (Sapete voi che c’è nel mondo una gran casa?).
Canta e cammina. Dopo la Messa, le testimonianze, i canti e i video allo stadio, a un’ora dalla mezzanotte, si prende a camminare, a vociare, pregare e cantare. Tutta la notte passa così. Mentre testimoni rapsodici si affacciano a scuotere l’infinito serpentone. Lunghe invocazioni e preghiere dei fedeli per chiedere una guarigione o raccontare di una guarigione. Per implorare il miracolo e per testimoniare un miracolo. Cantando e camminando, la sottile e planetaria pellicola del cielo virtuale si rivela cielo stellato e luna, la stessa lampadina cantata da Jannacci nel 1964. Cinquant’anni dopo, il mondo resta il mondo di come Dio l’ha fatto. Presente e materiale, che sconquassa il diaframma di infinite e seduttive immagini che galleggiano nel cielo abitato dalla globalizzazione. Sotto il pelo dell’acqua e del rumore di quella gran balla cosiddetta “società liquida”, c’è la realtà solida di piedi che marciano e mani che si tengono insieme. Di bocche che cantano o confidano piano piano, per timore di essere ascoltate dall’orecchio del frullatore mediatico, la speranza del cuore.
Le chiacchiere e le testimonianze
Non bisogna equivocare col sentimento. È tutto fondamento. Ed è tutto imperfetto. Anche il pellegrino. Camminiamo per la campagna come caciaroni, indisciplinati, distratti. Burloni come sempre. C’è il bimbetto Down che dice «ciao» a tutti e a tutti vuole stringere la mano. La madre dura in viso mentre il padre è sereno (o forse incosciente). Uno discute la sconfitta della Juve. L’altro si accende una sigaretta. Si alternano ai microfoni testimonianze toccanti. L’operaio della Whirlpool che ha perso il lavoro. La donna di Corridonia che ha visto sua figlia uscire dal coma miracolosamente. La giovane tossica rinata alla vita. Il detenuto di Padova a cui non è stata concessa la licenza di una notte di cammino. E ci sono, lungo la campagna, ali di folla, mani e facce ruvide di contadini. Uno spettacolo, come mi raccontò una volta il pilota di cacciabombardiere Nato venuto a sorvolare le colline di queste parti, di corpi e un’anima sola. Come quella donna che l’aviatore trovò sola, in cima a un monte, sotto la pioggia, senza copricapo né ombrello.
«Stava piangendo o era solo l’effetto della pioggia che cadeva fittissima? Non si scorgevano né auto né strade nei dintorni. Inclinai il velivolo a sinistra e mantenendomi un pelo al di sotto dello strato di nubi grigie e nere, che rovesciavano acqua a non finire, impostai una larga virata e a circa mezzo chilometro di distanza iniziai a inclinare ritmicamente a destra e a sinistra le ali per far capire che l’avevo in vista e che quel secondo passaggio del jet era esclusivamente per lei. La giovane donna appena vide che l’aereo ritornava alzò entrambe le braccia e cominciò a salutare». Ecco, nella notte del lungo cammino, ho visto una donna, intorno alle due del mattino, come appartata, sulla soglia di casa, con due occhi che sembrava avessero pianto tutti i pianti del mondo. E ho pensato al pellegrinaggio come a una virata di aeroplano che torna e ritorna per ricordarti che c’è una Presenza al tuo destino, compagna sotto qualsiasi pianto, sotto ogni pioggia e vento di burrasca. Come quelle lucciole lì, che Pasolini vide scomparire sul finire degli anni Sessanta e qui, nella campagna di Sambucheto, umanizzata dall’esposizione del Santissimo lungo la strada e dai fuochi d’artificio gentilmente offerti dalla ditta Alessi, infrangono il buio della notte.
Da zero a cent’anni
Rientro in redazione al mattino del lunedì e ho già qui l’omaggio dell’editore Lindau. Autrice Bat Ye’Or, Comprendere Eurabia. L’inarrestabile islamizzazione dell’Europa. Tutto vero, per carità. Basta viaggiare da sud a nord su vagoni Fs lungo la dorsale appenninica un sabato qualsiasi, scendere, farsi un giro negli ameni posti medievali di una volta (Spoleto, Trevi, Foligno, Fabriano) e trovarsi nel deserto. Negozi chiusi e vita rinsecchita all’ombra di ospizi e presidi sanitari. Pensione Italia che sta accrocchiata in un bar in attesa della finale di Champions o si trascina col cagnetto sotto il solleone, tra fantasmi e «per favore una monetina». Stanno già viaggiando verso nord i cinquemila che Alfano ha rifilato a Lombardia e Veneto. Tutto come da copione. Invasione lenta. Disbrigo burocratico della retorica sui “disperati”. Scandali cooperativi gonfiati per il circo dell’indignazione bamba. Tutto vero. Il barcone di Itarabia beccheggia e la colonizzazione avanza. Dal basso, coi flussi incontrollati dei migranti. Dall’alto, con la propaganda dei nuziandi e l’istruzione di massa gaylesbotransgender a vestire di rosa i maschietti da incanalare nella pedagogia sessuofoba. Però, nella notte e nell’alba dei 100 mila che camminando e gran caciaronando, gran faticando e sbandando, cascando per strada da una parte e rimettendosi in carreggiata dall’altra, non sarà una notizia, non è stata una notizia, ma è speranza che va e che andrà, cantando. Giovinezza di gente da zero a cent’anni, che cammina cammina, Maria invocando e a Dio piacendo, salverà l’Italia.
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3 commenti
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ciao eti un articolo sulla macerata loretto
Sono tre anni che la faccio … mai mangiato banane. Tanto ci offrono la colazione a Chianino … ☺️
Stupendi i bambini che hanno cantato “il seme” e “povera voce”. Cantiamo anche noi, come loro, e camminiamo!!!
Comunque ogni anno sempre un’emozione grandissima.
veramente un bel articolo!!!
PS: meglio ITARABIA (senza isis però …), che ITAGENDERCATTOCOMUN …