Pell: «Ero un capro espiatorio. Ma la persecuzione non è per forza negativa»

Di Redazione
03 Dicembre 2020
Domani esce il libro del cardinale George Pell, "Prison Journal", in cui racconta parte dei 404 giorni passati in carcere da innocente per false accuse di abusi. «Ho capito che il cristianesimo funziona davvero»
george pell vaticano

«Ho scritto questo libro per aiutare la gente a comprendere un po’ meglio il cristianesimo. Inoltre, vorrei che ciò che è successo a me non riaccada in Australia troppo velocemente, cioè che un membro di un gruppo molto impopolare che sposa idee politicamente scorrette venga spazzato via da una marea di opinioni ostili». È quanto ha dichiarato il cardinale George Pell al National Catholic Register, parlando del suo ultimo libro, Prison Journal, che uscirà domani per Ignatius Press e che parla del periodo della sua prigionia che va dal 27 febbraio al 13 luglio 2019.

«LA PERSECUZIONE NON È PER FORZA NEGATIVA»

Il tesoriere della Santa Sede lasciò l’incarico e il Vaticano nel 2017 per tornare in Australia e difendersi dall’accusa di aver molestato sessualmente due giovani membri del coro della cattedrale di Melbourne nel 1996 subito dopo la Messa. A causa di un processo assurdo, partito da una falsa accusa, costellato di errori, menzogne e strappi clamorosi alla prassi giudiziaria, che portarono a due condanne e all’assoluzione finale, il cardinale Pell rimase in carcere per 404 giorni, la maggior parte dei quali passati in isolamento, prima di essere liberato il 7 aprile.

L’ex arcivescovo di Melbourne si definisce un «ottimista sentimentale» e dice di non ritenere che «l’Occidente sita entrando in un’era di persecuzione», però, «anche se nessuno desidera alcun tipo di persecuzione, essa non è per forza negativa per la Chiesa». Racconta quindi che «una cosa che non menziono nel mio libro e che mi ha davvero sbalordito è che ho ricevuto circa 4.000 lettere da molti cattolici provenienti da ogni parte del mondo. Loro avevano la percezione che la persecuzione stesse aumentando. E come dato di fatto devo dire che tra queste lettere ce n’erano alcune di persone che avevano abbandonato la religione e che dicevano di essere così infastidite dal modo in cui ero stato trattato che avevano deciso di tornare a praticare la religione».

«IL CRISTIANESIMO FUNZIONA DAVVERO»

Dopo aver spiegato come in prigione si fosse imposto di scrivere ogni giorno, e sono proprio questi scritti a essere raccolti nel libro, racconta di che cosa ha imparato dalla vita in carcere:

«Questa è una buona domanda. Penso che una cosa che ho imparato è che il “pacchetto cristiano” funziona. Credo che l’insegnamento di Gesù su tantissime cose è assolutamente vero, che la chiave della vita si trovi nelle parole di Cristo. Ho provato, per quanto in modo imperfetto, a seguire quell’insegnamento. E dopo tutto ne sono uscito abbastanza bene. Sono anche consapevole che questa poteva essere un’occasione per approfondire la mia fede cristiana. Penso di averlo fatto, anche se sono troppo abituato al comfort per considerare la prigionia un mezzo privilegiato».

«MOLTI DETENUTI MI DIFENDEVANO»

Ritornando con la mente al periodo passato in cella, senza perdere la consueta ironia («non era l’Hilton ma neanche così male»), e agli altri prigionieri («alcuni erano arrabbiati, angosciati e infelici in modo terribile»), racconta: «I secondini facevano davvero un buon lavoro. Ogni tanto sentivo altri carcerati che gridavano il mio nome, mi insultavano e mi accusavano. A volte c’era qualcuno che mi difendeva. Un carcerato di lungo corso mi disse che era la prima volta che in prigione un prete accusato di pedofilia veniva difeso da altri detenuti».

In quel periodo difficile, «una grande consolazione per me era la consapevolezza che Cristo sarebbe tornato e che ci sarebbe stato un giudizio finale. Quando sono stato dichiarato colpevole, pensai di non ricorrere in appello, che sarebbe costato una fortuna ai miei amici. Pensai che se i giudici volevano serrare i ranghi e prendere decisioni sbagliate e stupide, allora non ne valeva la pena. Ma delle buone persone mi hanno spinto a riconsiderare questa decisione, compreso il capo della prigione. Io sono molto felice di essere stato scagionato perché questa storia riguardava non solo il mio onore e la mia reputazione, ma anche quelli della Chiesa. Penso però che il riferimento alla giustizia nella vita eterna sia ancora importante, perché ci sono così tante persone che non ottengono giustizia in questa vita».

Ovviamente, continua, «avrei voluto essere da qualche altra parte, desideravo che nulla di ciò che mi stava accadendo fosse successo, ma il primo passo per fare la volontà di Dio è accettare il posto in cui ci troviamo. Ho sempre percepito che Dio non mi aveva abbandonato anche se ho avuto i miei alti e bassi».

«IO ERO UN CAPRO ESPIATORIO»

Pell descrive poi il suo processo, spiega come la pubblica accusa fosse «sotto l’enorme pressione dei gruppi delle vittime» di abusi, ma «non poteva fare molto, le prove erano dalla mia parte». Afferma poi riguardo al suo accusatore: «Se qualcosa di terribile gli è accaduto, di certo non sono stato io. Ma io l’ho perdonato. Sono più ostile verso chi non crede che io sia innocente. A loro dico sempre: guardate le prove. Se il suo racconto fosse stato vero, avrebbe dovuto essere in due posti diversi nello stesso momento e neanche un “testimone credibile” può essere ubiquo. Molti volevano punire la Chiesa per la piaga degli abusi. Io ero il classico capro espiatorio».

Gli abusi, insiste, «sono un cancro ma credo che la Chiesa stia affrontando bene il problema. Io ho preso misure dure per arginare il fenomeno, ma le vere vittime non saranno aiutate dalla condanna di qualche innocente. Io credo nella giustizia e credo fermamente che per condannare qualcuno bisogna dimostrare che è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio».

Foto Ansa

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