«Vivremo la Pasqua partecipando al dolore di Gesù, ma anche al suo amore». Così padre Paolo, sacerdote caldeo della diocesi di Mosul, fra i profughi della città di Erbil, racconta le difficoltà e le speranza della comunità cristiana fuggita alla persecuzione dello Stato Islamico.
Padre Paolo, come vivrete la Pasqua?
Le celebrazione della Settimana Santa nel quartiere di Ankawa avranno luogo qui, nel centro che riunisce le famiglie di profughi, perché desideriamo riunirci insieme. Possiamo dire che i limiti della situazione hanno fatto emergere una certa creatività: oltre a recarci nelle parrocchie vicine, celebreremo la Pasqua in modo semplice, allestendo delle chiesette domestiche per stare insieme e riunire le famiglie dei villaggi invasi dall’Isis ora separate le une dalle altre.
Dove vivono ora le famiglie fuggite?
Circa 500 famiglie vivono qui nella struttura dove staremo insieme in questi giorni, le altre 300 alloggiano da parenti o amici, oppure in case affittate e occupate da più nuclei per via dei costi. Siamo davvero costretti a vivere con il minimo indispensabile. La nostra sarà una Pasqua povera, dove al centro ci sarà il sacrificio del Signore e le funzioni religiose. Questa sera reciteremo i vesperi, io predicherò e poi parteciperemo alla processione della croce e della sepoltura. Dopodiché la porta delle chiesetta che abbiamo allestito rimarrà aperta per “visitare” Gesù. Nel pomeriggio ci sarà anche una catechesi per i bambini, per spiegare loro il significato del sacrificio di Cristo che si ripete.
Con quali sentimenti vivete la passione, la morte e la resurrezione del figlio di Dio?
Siamo molto tristi. Abbiamo aspettato tutto l’anno questo momento, perché ci sentiamo profughi che vivono un dolore non lontano da quello di Gesù. Nello stesso tempo la speranza di tornare a casa non muore. E c’è persino la letizia, che si può vivere anche in questa situazione. Stare insieme come comunità cristiana ci dà la forza e la consolazione che generano speranza.
La persecuzione e il martirio non hanno affievolito la vostra fede?
Prima la gente viveva più superficialmente, spesso pensando alla Pasqua come un momento in cui mangiare insieme, indossare bei vestiti e fare festa, ma lasciando Gesù, la Messa e le funzioni in secondo piano. Ora siamo tutti più vicini al cuore della fede e al senso della Pasqua. Quanto stiamo subendo ci ha fatto riscoprire anche il valore della Chiesa. C’è un sostegno reciproco e un senso del legame alla comunità di cui non si può fare a meno. Posso dire che questo dolore ci fa vedere di più l’essenziale, Cristo.
Eppure in Occidente quello che vi è successo viene anche usato per dimostrare che se Dio non è un sadico allora non esiste.
Oggi (Venerdì Santo, ndr) parlerò della sofferenza di Dio. Un Dio che si è fatto prossimo a noi e che ci ama. A differenza di quello che pensano i terroristi dell’Isis, Dio non è violento e non vuole la morte. Al contrario, come ci mostra la Chiesa, il Signore ci ama così tanto che, attraverso degli uomini, condivide con noi le nostre sofferenze. Ci siamo noi preti che viviamo qui in mezzo ai profughi e persone che ci mandano aiuti o pregano per noi. Lo fanno in nome di Dio e così sperimentiamo la sua vicinanza. Posso dire poi che Dio lo cerchiamo di più e che lui si mostra a noi. Tanto che non ho sentito neppure di un cristiano iracheno che si sia suicidato per la disperazione, che dica che Dio non c’è o che abbia abbandonato la fede.
Che cosa può fare l’Occidente per voi?
Vogliamo che non ci dimentichi, vogliamo essere ricordati. Vi chiediamo quindi di chiedere conto ai vostri governi, spiegando loro che devono intervenire: non si può stare fermi e zitti davanti a gente che ogni giorno stermina degli innocenti, sovvertendo l’ordine per imporre il suo potere. Poi ringraziamo per gli aiuti e chiediamo che continuino, visto che tanti profughi oggi vivono grazie a questi. Ultima e prima cosa vi chiediamo di pregare. La preghiera innanzi tutto, per favore.