«Chi non ama il profeta Maometto?». Questa semplice domanda posta da un imam pakistano alla platea di fedeli ha innescato una serie tragica di eventi che ha lasciato un bambino di 15 anni senza una mano.
Il 10 gennaio, nella moschea del villaggio di Khanqah, il giovane Anwar Ali, avendo probabilmente interpretato male le parole della guida religiosa, ha alzato la mano alla domanda dell’imam Shabir Ahmad. Il figlio di una famiglia povera si è reso conto di aver sbagliato risposta quando ha visto che solo la sua mano si era alzata e che centinaia di occhi si erano girati verso di lui, accompagnando gli indici puntati dei musulmani scandalizzati e le grida dell’imam: «Blasfemo!». L’accusa è passata di bocca in bocca: «Non ami forse il tuo profeta?».
LA MANO MOZZATA. Anwar è scappato via. Arrivato a casa, ha cercato una falce acuminata e si è tagliato la mano destra. Nonostante l’ora tarda, è tornato in moschea e ha consegnato un piatto nelle mani dell’imam: sopra giaceva la sua mano mozzata, offerta in assoluzione del peccato commesso. Appena si è sparsa la voce nel villaggio, la polizia ha arrestato l’imam accusandolo di aver incitato il ragazzo a tagliarsi la mano. Ma le veementi proteste delle autorità religiose locali hanno convinto la polizia a rilasciarlo. Il capo distrettuale della polizia, Faisal Rana, ha dichiarato: «Non abbiamo prove che l’imam fosse coinvolto fisicamente nell’atto. È solo stato accusato di aver incitato e infiammato i sentimenti della gente, tanto da spingere il ragazzo a compiere quel gesto». In altri casi, l’incitamento degli imam e la semplice accusa di blasfemia ha spinto folle di centinaia di musulmani a uccidere e bruciare vivi cristiani (come nel caso di Shama e Shehzad), a cacciare comunità numerose di fedeli dalle loro case o a radere al suolo interi quartieri.
«ORGOGLIOSI DI NOSTRO FIGLIO». Anche la famiglia di Anwar ha giustificato l’imam: «Non ha fatto niente di male e non deve essere punito», ha dichiarato al New York Times il padre del ragazzino mutilato, Muhammad Ghafoor. «Siamo così fortunati ad avere un figlio che ama tanto il profeta Maometto. Saremo sicuramente ricompensati da Dio nella vita eterna».
I.A. Rehman, segretario generale della Commissione per i diritti umani del Pakistan, non la pensa allo stesso modo: «La nostra società è così intossicata da fatti negativi compiuti nel nome della religione, che ci sono dei genitori che si sentono orgogliosi se i loro figli fanno il jihad o muoiono nel nome di simili attività. Il governo deve fare di più per educare la gente e contrastare l’estremismo».
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