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«Non c’è più la Chiesa del silenzio, ora parla per bocca del Papa». Trentacinque anni fa l’elezione di Wojtyla

Il 16 ottobre 1978 iniziava il pontificato di Giovanni Paolo II. Così Luigi Geninazzi ricorda la sfida del papa polacco al comunismo e al potere. «L’esclusione di Cristo dalla storia dell’uomo è un atto contro l’uomo»

Luigi Geninazzi
16/10/2013 - 3:40
Chiesa
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Tratto dall’Osservatore Romano – Trentacinque anni fa, il 16 ottobre 1978, con l’elezione di Karol Wojtyła al Soglio pontificio s’interrompeva la successione dei Papi italiani che durava dal 1523. Nella ricorrenza, pubblichiamo alcuni stralci del libro L’Atlantide Rossa. La fine del comunismo in Europa (Torino, Lindau, 2013, pagine 286, euro 19). Nel capitolo che citiamo, l’autore, giornalista e scrittore, richiama – anche attraverso ricordi personali – l’impatto che l’elezione del Papa polacco ebbe sulla storia del comunismo e sulla storia europea in generale.

«È stata Sua Santità a volere questi affreschi?». Nella cappella privata del Palazzo pontificio di Castel Gandolfo mi ritrovo con una guida assolutamente eccezionale. È lo stesso padrone di casa, Giovanni Paolo II, ad accompagnarmi nella visita. La domanda mi sorge spontanea dopo aver ammirato i dipinti delle pareti laterali che illustrano due avvenimenti fondamentali della storia polacca: la resistenza del santuario della Madonna Nera di Częstochowa contro gli svedesi nel 1665 e la vittoria dei polacchi sull’Armata Rossa nel 1920, noto come “il miracolo della Vistola”.

Negli occhi di Papa Wojtyła scorgo un lampo di benevolo rimprovero. «No, non è una mia iniziativa! Fu Pio XI che era stato Nunzio a Varsavia a ordinare questi affreschi. Per me, divenuto Papa, è stato un regalo inaspettato». Mi sento nei panni di uno scolaretto ignorante ma il maestro cerca di togliermi dall’imbarazzo proseguendo la spiegazione in chiave autobiografica. «Sono nato nel 1920, nel mese di maggio, quando i bolscevichi accerchiavano Varsavia. Per questo, fin dalla nascita, mi sento particolarmente debitore verso coloro che lottarono per la libertà ottenendo una vittoria insperata. Posso dire che la mia vita ha avuto inizio nel segno del miracolo della Vistola».

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Non dico nulla, sono troppo commosso. È come se il Papa polacco avesse voluto farmi in qualche modo partecipe delle sue radici e del suo profondo attaccamento alla terra natale da cui ha preso slancio e vigore un pontificato davvero universale, in costante movimento fino agli estremi confini del mondo.

Estate 1983, tre giorni con Giovanni Paolo II a Castel Gandolfo. Un privilegio straordinario, un’esperienza unica. L’invito arriva dal segretario del Papa, don Stanislao (così tutti chiamavamo monsignor Dziwisz, sempre gentile e premuroso). L’occasione è data da un convegno molto speciale con scienziati e uomini di cultura di fama internazionale che Giovanni Paolo II ha invitato nella villa pontificia dall’11 al 13 agosto. Un incontro a porte chiuse che non prevede alcun comunicato stampa e tanto meno la presenza di giornalisti. Ma don Stanislao ha pensato di fare un’eccezione per Il Sabato, con cui ha un rapporto di stima e d’amicizia, e la scelta cade su di me, credo per le mie frequentazioni polacche.

Monsignor Dziwisz mi accoglie all’ingresso del palazzo, quindi mi conduce nel Salone degli svizzeri, così chiamato per gli antichi segni delle alabarde lasciate sul pavimento dalle guardie pontificie. Sorride in silenzio, intuendo la mia agitazione. Non è cosa di tutti giorni vedere riunite attorno a un tavolo le più grandi personalità della cultura europea. Se poi, seduto in mezzo a loro, si trova il Papa, l’avvenimento assume un carattere eccezionale e diventa emblematico del tentativo appassionato di Giovanni Paolo II di svolgere senza preclusioni il confronto fra la Chiesa cattolica e il mondo contemporaneo. Tema del convegno, il primo di una lunga serie che si terrà con cadenza biennale, è «La situazione dell’uomo nella prospettiva delle scienze moderne».

Durante le pause dei lavori (il momento più interessante dei convegni…) ognuno ha l’opportunità di chiacchierare affabilmente con Giovanni Paolo II, prendendo insieme il caffè o passeggiando sulla terrazza che spalanca la visuale allo stupendo cerchio di colline sovrastanti il lago. S’intrattiene con tutti, anche con l’unico giornalista presente.

Il primo Papa slavo è stato anche il primo Papa proveniente da un paese comunista, una coincidenza che si è rivelata provvidenziale per la Chiesa e per il mondo.

Oggi lo riconoscono tutti. Ma val la pena ricordare qual era l’immagine dell’Europa orientale e della Chiesa dell’Est quando il Papa polacco fece irruzione nella storia. Una regione dimenticata, ai margini dell’Europa, e una Chiesa conservatrice, pre-conciliare, ripiombata nelle catacombe di un impero ateo e oppressivo.

«Viva la Chiesa del silenzio!» è il grido entusiasta e ingenuo con cui Giovanni Paolo II viene accolto ad Assisi nell’ottobre del 1978, pochi giorni dopo la sua elezione a Pontefice. E lui di rimando: «Non c’è più la Chiesa del silenzio, adesso parla per bocca del Papa». Quella che era considerata una retrovia adesso diventa la nuova frontiera della Chiesa.

È questa la vera grande rivoluzione che precede e prepara quella dell’89. La prima crepa nel muro del comunismo si aprì già dieci anni prima, il 2 giugno del 1979, allorché sulla piazza della Vittoria a Varsavia un uomo vestito di bianco prese la parola davanti a un’immensa folla. «L’esclusione di Cristo dalla storia dell’uomo è un atto contro l’uomo».

È il guanto di sfida che il Papa polacco, tornato in patria tra gli applausi commossi della gente e gli sguardi sospettosi dei burocrati di regime, lancia al totalitarismo rosso.

 

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