Non avremmo voluto sapere niente del caso transfobia al liceo Cavour
«Mi ha urlato che la verifica è un documento ufficiale. Ho pianto, mi è venuto un attacco di panico», «Vorrei fare l’ingegnere, magari informatico. Ho un po’ paura per il mio futuro. Se un prof mi tratta così cosa mi succederà fuori? Anche sul lavoro sarò trattato male da un capo o da un collega solo perché voglio essere chi sono?» (Riccardo, nome di fantasia, al Corriere). «I miei diritti sono stati violati. È positiva anche quest’attenzione mediatica», «Un’altra frase recente è stata: “Ora vedrete che succede col governo di destra”. Non so a cosa si riferisse esattamente» (Marco, nome di fantasia, a Repubblica).
Da un compito in classe al caso nazionale
Riccardo e Marco sono la stessa persona, una persona che frequenta il liceo Cavour ed è diventata protagonista dell’ennesimo caso di sofferenza reclutata e mediatizzata dai giornali per gridare all’emergenza transfobia: annunciata una manifestazione per il 18 novembre, la Rete degli studenti medi e Gay Center chiedono l’approvazione della carriera alias a livello nazionale.
Di questa persona alla quale il professore di Arte ha riconsegnato il compito in classe (voto 6.5, «farò ricorso, il compito proposto dal prof. andava bene per il resto della classe, ma non per me, che devo seguire un piano educativo individualizzato») con un segno rosso sul nome d’elezione, si sa solo che «è maggiorenne», «con disturbi dell’apprendimento» e ha una «insegnante di sostegno», ed è seguita dai servizi pubblici che si occupano di disforia di genere, anche se non ha ancora iniziato la terapia ormonale: informazioni riportate dai giornali che si sono buttati a pesce su Riccardo/Marco e che da sole basterebbero a discernere tra l’opportunità o meno di usare la sua sofferenza per montare un caso.
Reclutare ragazzi come santini
Un caso contro chi? Il governo di destra (il ministro Valditara ha promesso tutte le verifiche del caso per appurare se si sia in presenza di un caso di discriminazione), il professore (che «chiama tutti signorino o signorina»), o il sistema scolastico che non ha ancora riconosciuto a livello nazionale la carriera alias (una procedura che legittima nelle scuole da parte degli studenti l’assunzione di nomi di elezione, corrispondenti al genere a cui si sentono di appartenere, con la relativa alterazione dei registri e dei documenti interni, ma che non è prevista dalla legge né autorizzata dalle autorità competenti)?
Domande a cui ne aggiungiamo un’altra, la più importante: davvero i giornalisti pensano di fare il bene di Riccardo/Marco nel reclutarlo come vittima, santino e issarlo come bandiera della carriera alias (che al liceo Cavour è applicata e tutti i professori, gli studenti e la vicepreside sono dalla parte del ragazzo)? La risposta non è affatto scontata e c’entra col motivo per cui quello del liceo Cavour di Roma, e del professore reo di non avere riconosciuto un maschio in una femmina, è l’ennesimo caso al quale i giornalisti non avrebbero dovuto prestare la loro collaborazione, eccedendo in pathos ben oltre il diritto di cronaca e informazione.
La stampa va a pescare al Cavour: «Sono orfano, dislessico, sto sotto ormoni»
Già un anno fa il liceo Cavour richiamò i giornalisti grazie al video-denuncia pubblicato su Instagram da Anna-Andrea, «sul registro c’è scritto Anna, ma io mi sento Andrea. E al bagno dei maschi, dove vorrei che fosse mio diritto accedere ogni giorno, ci sono andato per la prima volta ieri, durante l’occupazione della scuola che frequento».
I giornalisti sciamarono allora al Cavour riprendendo Anna diventato Andrea, che sogna di fare l’ingegnere e costruire protesi per i trans, ma orgogliosamente affezionata al suo trucco, rossetto, il suo «partner», e dando visibilità al suo appello, «sono un essere umano», nonché alla rappresentante di istituto che magnificava il raggiungimento dell’obiettivo dell’occupazione (Andrea si è «sentito a proprio agio per la prima volta ad andare nel bagno dei maschi»), ai collettivi che invocavano la carriera alias per tutte le scuole, «centinaia di ragazzi stanno soffrendo». E scesero in campo gli scrittori, in testa Christian Raimo «dobbiamo cambiare scuola, adesso», parlando di carriera alias come di scelte «non procrastinabili». Intanto a Repubblica Anna-Andrea raccontava: «La mia è una situazione particolare: sono orfano, dislessico, mi sono trasferito dall’artistico al Cavour, sto sotto ormoni». E carriera alias fu.
L’immancabile manifestazione contro sessismo e transfobia
Non sappiamo quanto la delicatissima questione della carriera alias che nelle conseguenze si spinge molto oltre l’uso di un bagno o di un nome diverso sul registro (lo spiega benissimo qui il Centro Studi Livatino) porti più bene che complicazioni ai ragazzi più vulnerabili, sappiamo che non è questo che interessa ai giornali, ossessionati solo dal poter appiccicare la pecetta di transfobico a un professore. «È successa una cosa gravissima. Un professore si è ripetutamente rifiutato di applicare la legge»: i giornalisti rimestano nei post anonimi del canale Instagram Spotted Cavour, «La scuola dovrebbe rendere gli studenti e le studentesse cittadini del domani – dichiarano in una nota diffusa alla stampa (sì, una nota scritta e diffusa per la stampa) studenti e rappresentanti dei genitori del Consiglio di istituto -. Il ruolo dell’insegnante è quello di fare un passo in avanti verso chi ne ha bisogno, non due indietro, assumendo comportamenti discriminatori e sessisti».
Per rinforzare l’emergenza democratica, nel calderone del caso Cavour studenti e genitori infilano infatti anche riferimenti a fatti avvenuti in altri licei, quello che ha visto un professore di Storia del liceo Plinio Seniore rimproverare una ragazza «o ti copri o ti denudi», e quello delle avance inviate via Whatsapp da un docente di Latino e Greco denunciate come molestie dalle studentesse dell’istituto superiore Pilo Albertelli. «Faremo in modo che nessuno possa dover più vivere eventi del genere», promettono ragazzi e genitori del liceo romano che chiedono «provvedimenti disciplinari e legali nei confronti del docente» del Cavour, «Gay help line ha ricevuto segnalazione e chiederà immediati chiarimenti».
Il ragazzo dai pantaloni rosa e Orlando, per la stampa erano solo “vittime gay”
Più che passi avanti, sembra di essere tornati indietro di dieci anni, quando i media trasformarono il tragico suicidio del “ragazzo dai pantaloni rosa” sempre del liceo Cavour in un simbolo dell’emergenza bullismo e omofobia. Si denunciò allora una scuola che «non sa fermare i prepotenti»; si scrissero editoriali dai titoli “Omofobia, Roma fermi la strage”; si scese in piazza con le fiaccole e i pantaloni rosa dal cui piacere di indossarli i media avevano diagnosticato l’omosessualità del ragazzo. Poi si scoprì che «la morte del liceale con i pantaloni rosa non fu omofobia. E nemmeno un caso di bullismo». Forse una delusione d’amore, ma il ragazzo non era omosessuale e non fu bullizzato.
Il suo cadavere fu trascinato però in decine di iniziative mediatico-giudiziarie, proprio come pochi mesi fa quello di un diciottenne di Torino, Orlando Merenda: i giornali hanno dato la notizia della sua morte sicuri del movente e del colpevole. Essendo gay il ragazzo era certamente l’ennesima «vittima di bullismo omofobo», si è ucciso per fuggire ai pregiudizi delle «menti chiuse che hanno la bocca aperta» (da una sua frase scritta su Instagram a marzo). Si è tolto la vita, scrissero, «perché vittima di omofobia», «stanco degli insulti e delle offese continue», «deriso e insultato perché era gay». I media smisero di occuparsi della vicenda non appena spuntò la pista del ricatto a sfondo sessuale e un giro di prostituzione. Incapaci di vedere in Orlando Merenda, così come nel ragazzo dai pantaloni rosa, e in tanti altri prima di loro nient’altro che questo: un ragazzo gay.
La caccia al fragile utile a ogni battaglia ideologica
Cioè sempre una vittima e un buon pretesto per spingere una legge Zan (tutti tuonarono e twittarono #ddlzansubito) o, prima, un ddl Scalfarotto, alla cui causa venne sacrificata anche la professoressa di religione Adele Caramico ribattezzata il “mostro omofobo di Moncalieri”, accusata da un alunno gay di aver detto in classe che gli «omosessuali devono curarsi». Era il 2014, i deputati chiedevano se il ministro dell’Istruzione fosse a conoscenza dei fatti e «come intendesse procedere per contrastare casi analoghi di omofobia dei docenti negli istituti statali». Solo che i fatti non c’erano: il “mostro omofobo di Moncalieri” sbattuto su tutte le prime pagine non era un mostro e non era omofobo, si trattava solo di balle che lo studente aveva raccontato prima all’Arcigay e poi ai media.
La lista dei casi denunciati dai giornali e poi “disattesi” di omofobia è lunga ma non è questo che ci interessa sottolineare ora, quanto cosa i precedenti pescati nelle scuole dovrebbero insegnarci, a proposito dell’utilizzo della fragilità e sofferenza di una persona. La logica la conosciamo: ci viene servita tutti i giorni, è la stessa spudorata e fanatica di chi reclama l’eutanasia per i tetraplegici e i malati di sla, di chi issa il volto muto o cieco di un disabile (o di un migrante, un drogato, un bambino surrogato) sul pennone di ogni battaglia ideologica.
Spegnete le telecamere
Ragazzi giovani, orfani, dislessici, sotto ormoni: ce ne sarebbe abbastanza per fare un passo indietro. Non certo rispetto ai ragazzi, ma rispetto alle telecamere per sottrarli dal reclutamento dei cronisti a caccia perenne di vittime. Qual è l’aiuto e il sostegno portato dalla mediatizzazione di un caso come quello del Cavour, da giornalisti interessati solo a fare di un ragazzo e del suo corpo (quando non un cadavere) principio di scandalo, mobilitazione, chiamata alle piazze dove nulla è più storia e verità a sé – tragica e misteriosa come quella del suicidi del ragazzo dai pantaloni rosa o di Orlando Merenda -?
Della storia di Riccardo-Marco-Andrea non avremmo voluto leggere nulla. Avremmo voluto pensare, dopo i precedenti ai quali mediatizzazione e spettacolarizzazione hanno portato solo più dolore ingarbugliando la verità, che in una scuola drammi e complessità di situazioni denunciate sui social dagli studenti per agganciare i giornalisti sarebbero stati trattati con cura. Cioè all’ombra delle telecamere, quell’ombra non normata da leggi e indignazione pubblica nella quale, a riflettori spenti, si vede davvero chi è un ragazzo; dove trova la sua ragion d’essere anche la più dolorosa della circostanze, il rapporto studente-insegnante, il loro dialogo, lo scontro delle loro libertà. Non si elimina la sofferenza al prezzo di ciò che si è – uno studente, non un santino -, non si “sana” nel titolo di un giornale e nemmeno nella “vittoria” di un nome nuovo sul registro elettronico, o nel farsi rappresentare da una porta del bagno. Ancora una volta la narrazione del caso del liceo Cavour dovrebbe dirci molto su come i media e gli adulti guardano i ragazzi. E su come i ragazzi si sentono guardati da loro.
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