Tentar (un giudizio) non nuoce

Nella guerra tra Israele e Iran chi vince e chi paga?

Di Raffaele Cattaneo
22 Giugno 2025
Come spesso capita, vince la logica del più forte. E non pare esserci nessuno , tra i grandi leader mondiali, capace di svolgere una funzione di pacificazione. Saranno i civili a pagarne il prezzo
Teheran, Iran, 16 giugno 2025 (Foto Ansa)
Teheran, Iran, 16 giugno 2025 (Foto Ansa)

Chi, con un appuntamento già fissato in Oman per la domenica successiva, si sarebbe aspettato un bombardamento da parte di Israele nel pieno di colloqui diplomatici sulla non proliferazione nucleare, definiti “promettenti” dallo stesso presidente Trump? Forse solo alcuni addetti ai lavori, di quelli che controllano persino le cene a domicilio nelle ambasciate perché, quando restano al lavoro fino a tardi, spesso è segnale che qualcosa di importante sta per accadere. Ma, a parte loro, e a parte l’intelligence, l’opinione pubblica non si aspettava un atto di forza simile. Neppure io.

Ancora più sorprendente è stata la reazione di Trump, passato dall’entusiasmo per i negoziati all’esaltazione dell’attacco, fino alla prospettiva che gli Stati Uniti possano entrare formalmente in guerra. Il che lascia intendere come, in questo frangente, sembri più Netanyahu a dare la linea e a trascinare Trump che non il contrario. Di fronte a questa sorpresa, sorge una domanda inevitabile: chi detiene oggi il bandolo della matassa della geopolitica globale? Se il baricentro si è spostato verso posizioni radicali come quelle del governo israeliano, allora occorre interrogarsi su cosa ci aspetta.

Ramat Gan, Israele, 19 giugno 2025 (Foto Ansa)
Ramat Gan, Israele, 19 giugno 2025 (Foto Ansa)

L’Iran non può avere la bomba

Il realismo politico però impone una premessa: l’Iran non deve avere la bomba atomica! Almeno a parole lo sostengono tutti, lo ha ribadito la presidente Meloni, su questo punto non si può che essere d’accordo. Una bomba nucleare in mano a un regime che sostiene da tempo il terrorismo internazionale, imprigiona e uccide i suoi oppositori interni e solo pochi mesi fa non ha esitato a incarcerare una giornalista italiana per usarla come ostaggio politico, suscita gli incubi più inquietanti.

Ma vi è anche una seconda ragione: se l’Iran acquisisse l’arma nucleare, si innescherebbe una corsa agli armamenti atomici in tutta l’area. Arabia Saudita, Turchia ed altri paesi non accetterebbero un vicino così ingombrante dotato di bomba atomica e, anche solo per logiche di deterrenza, correrebbero a dotarsene. In altre parole, l’effetto sarebbe un’escalation diffusa, il contrario della sicurezza.

L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), dopo le recenti ispezioni in Iran, ha dichiarato che «non ci sono prove di un programma sistematico per una bomba», ma anche che «l’Iran ha materiale sufficiente, ipoteticamente, se decidesse di sviluppare una bomba: hanno più di 400 kg di uranio arricchito al 60%, a un passo dal 90 necessario. Quindi c’è la materia prima, ed è per questo che c’è tanta preoccupazione». E pochi giorni fa aveva dichiarato che l’Iran «ha sempre negato di voler costruire un’arma nucleare, ma negli ultimi anni ha raggiunto livelli di arricchimento dell’uranio vicini al 60 per cento, ben superiori a quelli necessari per qualsiasi altro uso».

Saremmo quindi di fronte a un arricchimento dell’uranio da parte di Teheran che non ha giustificazioni civili, ma esclusivamente militari.

Prudenza e saggezza

Ho avuto modo di incontrare recentemente il direttore dell’Agenzia, Rafael Grossi, e posso assicurare che è tutto fuorché un estremista, per cui le sue dichiarazioni meritano attenzione in entrambi gli aspetti. Se i negoziati non riescono a garantire risultati per impedire la costruzione di una bomba atomica, allora, prima che sia troppo tardi, occorre cercare altri strumenti. Ed è a questo riguardo che l’opzione militare può diventare una via praticabile e giustificata. Ora anche qui è necessaria una riflessione: se l’opzione militare diventa l’unica via percorribile, la questione centrale è come evitare una escalation regionale o peggio globale. Da questo punto di vista è certamente preferibile un attacco mirato da parte di Israele che un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti o della Nato: si rischierebbe di espandere ulteriormente il conflitto, che deve restare circoscritto.

Tuttavia, l’obiettivo di Israele oggi non sembra più limitarsi a fermare l’arricchimento dell’uranio. Sembra essersi trasformato in un tentativo di cambio di regime. La storia, anche quella italiana, ci insegna che le guerre possono generare nuovi assetti politici. Così è avvenuto da noi alla fine della Seconda guerra mondiale. Ma ci insegna anche che i cambi di regime imposti dall’esterno, soprattutto in Medio Oriente, hanno spesso prodotto esiti opposti a quelli sperati: dall’Iraq alla Libia, dall’Afghanistan ad altri contesti simili. Pensare che le bombe israeliane possano portare democrazia e stabilità all’Iran è un azzardo. Serve prudenza e saggezza, cervello e cuore più che muscoli e forza.

Bisogna anche tenere conto che Israele è un Paese di nove milioni di abitanti, l’Iran dieci volte tanto. Questo squilibrio demografico si riflette inevitabilmente sulle capacità militari. Israele, forte di una tecnologia avanzata e di armi sofisticate, prevale in questa fase e certamente in un conflitto lampo. Ma se il conflitto si protraesse, come sta accadendo a Gaza, la superiorità iniziale potrebbe non bastare. La “guerra dei Sei Giorni” è lontana nel tempo: oggi Israele, contro ogni previsione, combatte a Gaza da più di 600 giorni. Quanto potrà reggere un coinvolgimento prolungato e logorante contro l’Iran?

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Chi paga il prezzo

Che conclusioni possiamo trarre? La prima è che, ancora una volta, il diritto internazionale e la diplomazia vengono sostituiti dalla logica del più forte. Il fatto compiuto sembra prevalere sul dialogo. Ma ciò che nell’immediato appare efficace, nel tempo si rivela spesso fragile. Per questo bisogna confidare nella diplomazia. E anche nella democrazia. Perché, se nell’immediato appaiono più lente e meno efficaci, la storia ha dimostrato che nel lungo periodo sono le sole a costruire davvero.

Seconda considerazione: il mondo sente la mancanza di una figura capace di svolgere una funzione di equilibrio e pacificazione. Oggi, se guardiamo ai grandi leader – Trump, Xi Jinping, Putin, l’Europa di Ursula von der Leyen o di Macron e Merz – nessuno sembra in grado di incarnare questa funzione. Solo la voce del Papa svolge questo ruolo. Ma tra i leader politici prevale ovunque un linguaggio muscolare, in un tempo in cui ci sarebbe bisogno di misura e di moderazione.

Terza e più importante osservazione: si parla sempre dal punto di vista dei governi, delle strategie, degli equilibri. Mai si parte dal basso, dalla vita concreta delle persone. Da chi, in questo momento, sente l’allarme o il ronzio dei droni sopra la testa. Secondo i dati del Guardian e di AP News, nelle sole prime 48 ore del conflitto sono morte oltre 600 persone, di cui circa 480 in Iran a causa dei bombardamenti israeliani e più di 120 tra le vittime civili in Israele. Le autorità sanitarie parlano di centinaia di feriti, infrastrutture civili distrutte e blackout diffusi nelle principali città iraniane. Poi l’Iran non ha più comunicato dati. Alla fine chi paga il prezzo della guerra sono costoro! Cui si aggiungono i bambini che non possono più andare a scuola, i padri di famiglia che hanno perso il lavoro, le abitazioni distrutte, le famiglie separate. Sono questi gli addendi di un conto che non si fa mai abbastanza, ma che misura il costo reale della guerra.

La vera sconfitta della guerra è qui. È nella conferma che, ancora una volta, dal male nasce solo altro male. E dall’odio, solo altro odio disperazione.

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