Nel pozzo del Big Bang
Di che cosa siamo fatti? La domanda campeggia all’entrata della mostra Microcosm, allestita per accogliere il visitatore del Cern. Alla European Organization for Nuclear Research di Ginevra, nella verde campagna al confine con la Francia, capita che giovani studenti, famiglie ma anche nonni in pensione, varchino la soglia del più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle per scoprire di cosa è fatto l’universo e come si è evoluto. Istituito nel 1954, oggi il Cern conta 20 Stati europei membri, che finanziano i progetti qui concepiti, ridistribuendo parte dei contributi al comparto industriale che fabbrica gli strumenti tecnologici necessari. In questo senso «il Cern è l’esempio di come dovrebbe lavorare l’Europa».
Lucio Rossi, vent’anni al Politecnico di Milano, dal 2001 si è trasferito «armi, bagagli e famiglia» a Ginevra, per dirigere il settore dedicato ai magneti superconduttori del progetto dell’LHC, Large Hadron Collider, l’acceleratore di particelle entrato in funzione il 10 settembre e fermatosi per un guasto 11 giorni dopo. Balzato agli onori delle cronache per il paventato pericolo che la sua messa in funzione avrebbe potuto originare un buco nero in grado di inghiottire il pianeta. «Una bufala incredibile. In realtà, si parla di un unico scienziato che in Europa ha sollevato questa obiezione, di cui la stampa si è immediatamente impadronita. A noi ha fatto una pubblicità pazzesca, anche se dopo l’incidente le critiche e i dileggi non sono mancati». La popolarità di questo tempio della scienza e santuario della curiosità non è certo un fatto nuovo. Il Cern ha visto passare numerosi premi Nobel e nascere invenzioni straordinarie che hanno rivoluzionato il mondo, come il web. «È vero, è nato qui» conferma Rossi, che in un pomeriggio di autunno anticipato, gli alberi della campagna ginevrina pennellati di tutte le gradazioni dell’arancione, apre le porte dell’enorme centro ricerche. Senza mai stancarsi di raccontare, quasi stesse tenendo una delle sue lezioni, che un po’ rimpiange, al Politecnico di Milano.
«Il Cern è uno dei templi della ricerca di base o pura, come si diceva una volta, ma per fare ricerca ci vogliono strumenti all’avanguardia, perciò da tempo ci occupiamo pure di tecnologia, che a volte ha ricadute importanti come nel caso del web. Ma penso anche agli acceleratori di particelle utilizzati nel settore medico della cura dei tumori, come al Cnao di Pavia con l’adroterapia». Se da una parte la ricerca scientifica si spinge sempre più lontano a investigare nel grande, come l’astronomia, «c’è un’altra branca che scruta l’infinitamente piccolo. Noi qui studiamo i mattoni fondamentali di cui siamo fatti, ossia i costituenti della natura da cui è sorto l’universo, e le forze che tengono incollati questi mattoni». La risposta sta nella “particella di Dio”. «Il nome Dio tira molto negli Stati Uniti, in realtà si chiama bosone di Higgs e spiegherebbe l’origine della massa. Perché una delle cose più incomprensibili è proprio la formazione della massa, un elemento basilare che sperimentiamo su di noi tutti i giorni, tanto che abbiamo l’idea che una cosa esiste perché ha massa. Persino in filosofia ci sono state tante discussioni in merito: ciò che non è corporeo esiste? Nella fisica si cerca la verità, ma spesso le risposte sono parziali, vere ma parziali, dunque siamo spinti verso altre verità in una dinamica incredibile, nella quale più scopri e più ti spalanchi verso mondi nuovi, in un processo dinamico, in cui però una cosa rimane sempre uguale: più conosciamo e più non ci riconosciamo padroni delle cose. È esperienzialmente così, anche se la maggior parte della gente non lo vuole ammettere. Non possiamo dominare la realtà, perché essa è sempre più grande delle nostre teorie».
Si cerca la particella di Dio, ma non si gioca a fare Dio. È importante tuttavia farsi le domande giuste, perché tutto parte sempre da un interrogativo. «Esistono piuttosto domande ben poste che nascono da una curiosità originale. Non so se esistono le domande giuste, so solo che se uno prende sul serio la domanda ha speranza di riconoscere la risposta quando vi si imbatte, altrimenti ci passa accanto. Ci sono state diverse scoperte non fatte perché gli scienziati avevano visto, ma non avevano capito. Per esempio, André-Marie Ampère avrebbe potuto vedere un fenomeno importante, quello delle correnti indotte, che poi venne scoperto dagli inglesi. Lo scienziato è come un artista che percepisce aspetti della realtà che la gente di norma non coglie. La stessa cosa che può succedere se un giorno, camminando per una strada conosciuta, la vediamo riprodotta sulla tela di un pittore e ci accorgiamo di particolari che non avevamo notato. Per fare questo però ci vuole anzitutto umiltà, anche nel seguire un altro più avanti di te. Ossia un maestro. Nella mia carriera è stato fondamentale. Certo esistono pure geni isolati. Il più grande è stato Albert Einstein, che però non ha fatto scuola, tanto che la meccanica quantistica si è evoluta non contro di lui, ma quasi».
Proprio Einstein disse che «la conoscenza è limitata. L’immaginazione circonda il mondo». Sono parole di un altro mondo? «L’immaginazione – continua Rossi – è un modo di conoscere ed è più importante di quella conoscenza perfettamente incasellata. È noto che Einstein la gravità generale se l’è immaginata. E quando vedeva i grandi scienziati presi dal loro lavoro diceva che una dedizione così è possibile solo con l’innamoramento o lo spirito religioso». Per questo ai giovani che decidono di intraprendere la carriera della ricerca, e qui al Cern ce ne sono moltissimi provenienti da tutto il mondo, Rossi insegna sempre che servono entusiasmo e perseveranza, ma anche che «chi calcola troppo rischia di rimanere con niente in mano. Nella scienza nulla accade per caso, perciò per fare scienza bisogna necessariamente credere che la realtà sia unica e razionale. Ci vuole molta più credulità e senso di contraddizione a pensare che tutto sia frutto del caso, piuttosto che di una razionalità suprema. Invece la gente preferisce l’astrologo al prete».
In fondo al tunnel
L’enorme struttura del Cern ha il suo cuore pulsante al centro di controllo, dove sono al lavoro decine di giovani. Devoti della ricerca che «vivono praticamente qui, andando avanti a caffè, rigorosamente italiano», scherza Rossi. Gli schermi dei computer tengono costantemente sotto controllo l’LHC. «I fasci azzurri indicano i flussi di particelle, mentre le aste verdi riguardano la temperatura dell’acceleratore», spiega uno dei ricercatori, ex allievo di Rossi che come altri lo hanno seguito a Ginevra. Ed eccolo, finalmente, l’enorme pozzo “del desiderio”. Affacciandosi si resta sospesi su una cavità profonda 100 metri alla cui base si apre l’entrata del tunnel (27 chilometri di circonferenza) pensato e costruito appositamente per scoprire la particella di Dio.
L’acceleratore di particelle numero uno al mondo ha richiesto un budget di 6,4 miliardi di euro e l’impiego, fra gli altri, di 600 ricercatori italiani. «Prendiamo un po’ di materia, la ionizziamo e ricaviamo i protoni. A questo punto cominciamo ad accelerarli, prima con un piccolo acceleratore poi attraverso una cascata di acceleratori sempre più potenti, fino a quando i protoni arrivano nel protosincrotone, un grosso acceleratore lungo 600 metri, quindi passano nel superprotosincrotone che è un acceleratore lungo 6 chilometri. I binari su cui viaggiano i protoni sono i magneti superconduttori, che costituiscono circa il 95 per cento del tunnel, fatti da un materiale speciale che porta la corrente elettrica senza dissipare energia. È possibile quindi mandare correnti enormi che generano campi magnetici enormi, da 5 a 10 volte più elevati di quelli dei magneti normali. Man mano che i protoni vengono accelerati, si creano due fasci di protoni che circolano in due sensi contrari e che vengono fatti collisionare in alcuni punti. Quando questo succede i protoni si rompono dando origine a nuove particelle, tra le quali speriamo di vedere la particella di Higgs. Tutta la macchina lavora per creare questi istanti dell’urto, poi tutto si scarica e quindi si riparte. Si tratta di un tipo di ricerca statistica che richiede un numero molto alto di scontri, nell’arco di diversi anni». Dopo pochi giorni dall’inizio dell’esperimento si è verificato però un problema dovuto «a un danno elettrico in una connessione tra magneti, che ha prodotto una serie di eventi che hanno portato a guasti meccanici», continua Rossi. «In primavera prevediamo di rimettere tutto in funzione».
Protoni, neutroni e affini. Roba buona per intrattenere gente col pallino della fisica, ma nel mondo “reale” cosa c’entra? «Il nostro scopo – risponde Rossi – non è la ricerca tecnologica, ma quella fondamentale, eppure succede che, per esempio, quando abbiamo fatto costruire uno dei pezzi dei magneti da una media impresa di Cinisello Balsamo, questa ha acquisito un know how che ha potuto sfruttare in procedure di stampatura fine nel processo automobilistico. Così, anziché delocalizzare è riuscita a dare lavoro a più persone, diventando il fornitore principale di aziende come Citroën o Peugeot. Una delle cose più importanti che le ditte italiane imparano lavorando con noi è adottare controlli di qualità molto serrati, invece spesso fanno dei prodotti ottimi, ma non sanno lavorare in campo internazionale, perché non amano seguire procedure rigorose».
L’Italia, appunto. Vista da qui, dal bordo dell’acceleratore più famoso del mondo, come appare il nostro paese e la sua comunità scientifica? «Stimo l’amico astrofisico Marco Bersanelli, perché riesce a conciliare tutto ciò che fa, anche fuori dal lavoro. Lavorare tanto non basta, bisogna avere un’unità d’intenti, altrimenti si è scompaginati. Invecchiando poi ho iniziato ad apprezzare il fisico Antonino Zichichi, perché non si accontenta di sguazzare nello stagno, ma si preoccupa che lo stagno esista. Infatti ha costruito una scuola in Italia e questo pochi riescono a farlo».
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