L’ideologia woke si sta prendendo anche i musei d’arte

Di Piero Vietti
06 Settembre 2022
In America mostre ed esposizioni sono scuse per parlare di colonialismo, sessismo e questioni di genere. Ma così l'approccio ideologico ribalta l'esperienza dell'arte riducendola a slogan, scrive il WSJ
Arte Matisse New York
Visitatori alla mostra '"Matisse: The Red Studio" al Metropolitian Museum of Art di New York (foto Ansa)

«Che cos’è un museo d’arte?», si è chiesto Eric Gibson sul Wall Street Journal, ironizzando sul fatto che generalmente questi posti vengono percepiti come «luoghi pieni di cose belle, che organizzano cosiddette mostre di successo di alto profilo e che organizzano feste sfarzose, a volte pacchiane». Ma i musei d’arte sono molto di più, hanno giocato e giocano un ruolo fondamentale per la vita culturale di una nazione, sono posti in cui le persone possono imparare la storia dell’arte, ricchi di opere che «sono il nostro patrimonio culturale collettivo, simboleggiano chi siamo e da dove veniamo. Sono anche trasmettitori di valori culturali».

Università, istituzioni e musei sotto lo scacco woke

Perché restiamo sconvolti quando i talebani e lo Stato islamico distruggono opere d’arte, o quando vediamo i musei ucraini colpiti dalla furia della guerra? Perché reagiamo infastiditi alle immagini degli attivisti che nelle scorse settimane si sono incollati alle più note opere d’arte dei musei europei? Perché è probabile che il nostro «capire la bellezza e l’importanza di ciò che è stato minacciato o perso si è probabilmente formato visitando un museo d’arte», dice Gibson.

Ma così come le principali istituzioni culturali ed educative americane e occidentali sono sempre più sotto scacco dell’ideologia woke e della conseguente cancel culture revisionista e politicamente corretta, anche i musei d’arte oggi vivono una crisi: «Ora sono generalmente visti come vergognosi relitti dell’era del colonialismo occidentale, il cui ruolo sociale appropriato è quello di portare avanti un’agenda progressista». Dimenticate l’ars gratia artis, ammonisce Gibson, è un concetto che «sta passando sempre più in secondo piano rispetto all’ideologia politica». I musei stanno subendo la più grande trasformazione dagli anni Sessanta, quando diventarono quelli che conosciamo oggi, «popolari, populisti e una meta da non perdere».

Guardare l’arte con lenti progressiste

Nati «dal desiderio di comprendere il mondo attraverso la raccolta, la classificazione e l’esposizione di esemplari e manufatti, sono stati costruiti con la convinzione che i tesori culturali non appartengano alle élite ma a tutti i cittadini e dovrebbero essere disponibili per l’edificazione e il divertimento di tutti». Bene, il problema, scrive l’esperto di arte del Wall Street Journal, «è che in troppi musei, gli intenditori sono stati sostituiti da commissari, ideologi per i quali l’estetica è meno importante del garantire di vedere l’arte attraverso lenti progressiste. Questa tendenza esisteva da tempo, ma negli ultimi anni il “grande risveglio” l’ha resa dominante».

A chi pensa che l’allarme sia esagerato basti confrontare queste due dichiarazioni fatte da due diversi direttori dello stesso museo a quindici anni di distanza: «Nel 2005, Philippe de Montebello, allora capo del Metropolitan Museum of Art di New York, scrisse un editoriale per il Journal intitolato “Why Should We Care?” La sua risposta: “Le opere d’arte, che incarnano ed esprimono con forza grafica le aspirazioni più profonde di un tempo e di un luogo, sono prove dirette e primarie per lo studio e la comprensione dell’uomo”». Due anni fa l’attuale direttore, Max Hollein, ha detto al New York Times che «Non c’è dubbio che il Met e il suo sviluppo siano anche collegati a una logica di quella che viene definita supremazia bianca».

Il #MeToo spiegato con Tiziano. Matisse sessista

La politicizzazione dei musei d’arte è così pervasiva che è sempre più difficile trovare un’istituzione o un aspetto della pratica museale che ne sia esente in America. Qualche esempio? Sulle targhette accanto a dipinti dell’America coloniale o della Francia del XVIII secolo vengono scritte informazioni sul legame del soggetto con la schiavitù, non importa quanto debole. L‘anno scorso l’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston ha allestito una mostra di dipinti mitologici del grande pittore rinascimentale Tiziano costruito attorno al “Ratto di Europa”. Un evento unico nella storia dell’arte, che però «il museo ha trasformato in un momento #MeToo, incaricando artisti contemporanei di creare opere e studiosi di scrivere commenti che, come si diceva, “si sarebbero occupati di questioni di genere, potere e violenza sessuale” che sono “tanto rilevanti oggi come lo erano nel Rinascimento”».

Il Baltimore Museum of Art ha allestito lo scorso autunno una grande mostra di opere di Henri Matisse, premurandosi di scrivere ovunque che il tema ricorrente dell’odalisca nelle sue opere fa di lui un sessista colonialista. Nel 2018 Kaywin Feldman, che dirigeva il Minneapolis Institute of Arts e ora dirige la National Gallery of Art, pubblicò un elenco degli otto valori fondamentali del suo museo: in cima c’era “l’uguaglianza di genere”. 

L’agenda woke portata avanti da istituzioni e media

Questa agenda, spiega Gibson, «viene portata avanti da organismi professionali come l’American Association of Museums, i media e le grandi fondazioni, così impegnati nel progressismo che nessun museo può sperare di ottenere una sovvenzione se non rispetta la loro linea. Nel 2019 Darren Walker, presidente della Ford Foundation, ha scritto un editoriale per il New York Times intitolato “I musei hanno bisogno di entrare nel futuro”, in cui li descriveva come “spazi contesi” dove da un lato ci sono “fiduciari che beneficiano di un sistema economico distorto che protegge e promuove la disuguaglianza” e dall’altro “persone che il sistema esclude e sfrutta”. Due mesi dopo la pubblicazione, il signor Walker è stato votato nel consiglio della National Gallery».

Cosa succede quando osserviamo un’opera d’arte? Non c’è una risposta univoca a questa domanda, ma una risposta quasi universale è “meraviglia”. «Prendiamo un esempio familiare: la statua del David di Michelangelo a Firenze. Di fronte ad esso non hai bisogno di alcun background artistico per capire che stai guardando qualcosa che prima era un grande masso che è stato trasformato in uno dei più grandi capolavori del mondo utilizzando la tecnologia più rudimentale, un martello e uno scalpello; e che questo è stato realizzato da qualcuno che non possiede un iPhone o non frequenta un’università della Ivy League».

La meraviglia di fronte al David di Michelangelo

Davanti a un capolavoro dell’arte «sei messo in una relazione alterata con il passato, il tuo tempo e, si spera, il senso di te stesso. Ti rendi conto che persone estremamente talentuose hanno camminato sulla Terra prima di te. E inizi a chiederti se, nonostante le tue comode ipotesi, l’era presente rappresenti davvero l’apice delle conquiste umane. Potresti anche sentirti un po’ umiliato. Allo stesso tempo, l’idea che stai fissando una roccia svanisce rapidamente mentre vieni tirato fuori dal tuo mondo quotidiano e nell’universo immaginativo che Michelangelo ha creato. Cosa c’è laggiù che ha attirato l’attenzione di David? Perché ha la fronte corrugata? Com’è che appare allo stesso tempo teso e rilassato? Ancora e ancora. È un’esperienza unica e meravigliosa, che solo l’arte può offrire».

L’arte ridotta a «pochi rozzi slogan»

Il nuovo approccio ideologico all’arte ribalta tutto questo, conclude l’editorialista del WSJ. «La ricchezza e la complessità dell’arte si riducono a pochi rozzi slogan. Le opere d’arte, trampolini di lancio per le grandi epoche del passato, si trasformano in campi su cui combattere le battaglie del presente. Il passato stesso, venerato fin dal Rinascimento come fonte di ispirazione e standard di eccellenza, è dipinto come fatalmente, persino irrimediabilmente imperfetto. A guidare tutto questo sono i commissari, che si sono arrogati lo status di esseri superiori, abilitati a esprimere giudizi sommari sugli artisti, sull’arte, sulle sue istituzioni e sui sostenitori. Non c’è umiltà, solo vanità morale».

Quando iI 13 settembre 2001, il Met riaprì due giorni dopo l’attacco al World Trade Center, il museo registrò l’ingresso di 8.270 visitatori, ben oltre la media del periodo. «Quelle persone non erano venute per ascoltare discorsi sul colonialismo, l’uguaglianza di genere e il resto, ma per connettersi con la bellezza, l’immaginazione creativa e la nostra comune umanità». Se non si ferma l’ideologia woke, tutto questo andrà perso.

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