Una storia vera che deve ancora accadere

Di Roberto Respinti
30 Aprile 2025
Nel mondo apparentemente perfetto e distopico descritto da Giovanni Zola si toccano temi che riguardano la nostra attualità. E che aprono a una speranza non utopica

Benvenuti in un mondo perfetto. Anche la criminalità è stata abbattuta e le carceri sono praticamente vuote, grazie al controllo sociale gestito dai calcoli statistici dell’I.A.A. – Intelligenza Artificiale Autonoma –, che anticipa la delinquenza terminando coloro che sono ritenuti potenzialmente pericolosi prima che possano compiere dei crimini.

Il male è stato definitivamente estirpato e tutto è bene. Forse.

Se è vero che l’intuizione artistica spesso coglie in via anticipata (profetica?) i caratteri di un futuro mondo possibile, il romanzo d’esordio di Giovanni Zola (Come formiche dall’alto) è una rappresentazione efficace, in chiave immaginifica ascrivibile al genere ”distopico”, per un potente richiamo – monito – di verità già presenti.

1984 di Orwell, Il mondo nuovo di Huxley, Blade Runner, I figli degli uomini, Hunger Games, The Giver, sono solo alcuni dei riferimenti letterari e cinematografici inevitabili nella descrizione di uno scenario che sembra essere già in parte attuale e in possibile via di peggioramento, in un futuro neanche tanto remoto.

Impossibile restarne indifferenti.

La storia si sviluppa in un ottimo equilibrio tra il ritmo di un’azione ad alta tensione, che cattura l’attenzione dalla prima all’ultima pagina, e le considerazioni riflessive, mai posticce e sempre ben inserite nella dinamica della narrazione, che – in un costante richiamo a un ”ritorno al reale” – danno spessore a un’opera che, pur piacevolissima, è tutt’altro che di mero intrattenimento.

A misura d’uomo, contro l’uomo

I testi di storia sono stati aboliti, la cronologia è stata cambiata in aRF/dRF – prima e dopo la Rivoluzione Francese – e il 1789 è il nuovo anno zero; l’Illuminismo e i principi di uguaglianza, fraternità e libertà sono stati riconosciuti come i valori fondanti il pensiero e l’azione dei “Dodici Saggi”, ossia gli interpreti, non eletti, della volontà popolare.

Chi è la persona, il suo valore, il suo rapporto con l’ambiente in cui vive, il bene comune: nel “nuovo mondo” in cui si dipana il racconto, tutto è privato del suo significato, sostituito da un pensiero unico e autoreferenziale, imposto.

La negazione del cambiamento climatico è ritenuto “reato d’opinione” con invio del reo a corsi obbligatori di riabilitazione psicosociale. Gli allevamenti di animali ai fini alimentari sono stati aboliti e riconvertiti in laboratori per la trasformazione dei rifiuti organici del bestiame in R.O.C.C. (Rifiuto Organico Compostato Commestibile), dal basso costo e dal modesto impatto ambientale. Il Pantambientalismo si è imposto come una religione a tutti gli effetti: nel rispetto dei “diritti dei vegetali” (considerati esseri intelligenti) la vegetazione, abbandonata a se stessa, è cresciuta a dismisura e gli animali, considerati come figli e parenti, vengono battezzati con nomi propri della specie umana; ucciderli è un delitto peggiore dell’omicidio, in base al principio che qualsiasi essere vivente non umano è innocente (i matrimoni con gli animali domestici sono comunque prassi consolidata, così come la zoofilia erotica). Così, di fatto, l’uomo è stato ridotto a un essere inferiore, un parassita cattivo che forse sarebbe meglio non fosse mai esistito.

Ma un potere che ha censurato il senso dell’essere umano – e quindi dell’essere umani – non può che dar vita a una società, anziché a misura d’uomo, contro l’uomo.

Al controllo delle nascite si accompagna il controllo della morte: il problema dei costi sociali generati dagli anziani è stato superato brillantemente, in quanto «è bastato spingere sul diritto a vivere una vita qualitativamente alta, che l’eutanasia è stata richiesta spontaneamente. Ha vinto il concetto che l’esistenza non è degna di essere vissuta se sei un costo insostenibile per la società».

Affresco cupo, ma non disperato

La precisione con cui sono tratteggiati i vari aspetti dell’habitat in cui si muovono i protagonisti è agghiacciante, proprio perché il racconto non trasmette un esercizio di pura fantasia. Crudo quando occorre, capace di suscitare ribrezzo, disgusto e terrore nei momenti in cui poche immagini e parole fanno percepire l’inferno di un un’umanità smarrita, ed emozioni profonde, come quelle che provocano le parole di un amore “per sempre” e di una preghiera che sembra scritta per chi legge.

In una realtà dove tutto è socialmente e militarmente programmato, selezionato e controllato in base alla fedeltà ai princìpi fissati dal “Governo del Bene Comune e del Desiderio” (anche la proprietà è stata abolita perché ciò che è privato non è controllabile) e del DICAP – “Dipartimento di Civiltà, Atteggiamento e Buon Pensiero” –, la ribellione è la pretesa radicale di un senso al tutto e a sé stesso: chi sono, da dove vengo, dove vado. Che può emergere anche nella meraviglia per la bellezza di un tramonto, che reca la nostalgia di un ignoto – perché censurato – «grande artista dell’universo, che si fosse preso la briga di scatenare la sua fantasia infinita».
Un affresco cupo, ma non disperato.

Anzi, che stimola, in modo non banale, a una presa di coscienza e a considerazioni pertinenti alla realtà, non letteraria ma hic et nunc, e che offre spunti e linee per possibili sviluppi.

Risposte, ma non alle domande

L’importanza della “forma data alla società”, che può agevolare oppure ostacolare ciascuno nel perseguimento del fine della propria esistenza. Il valore di non ignorare il proprio disagio, bensì di andare a fondo dell’esigenza di dare ragione e nome al proprio disorientamento, non restandone passivi, ma accogliendo la provocazione interiore che muove e che può sfociare in azione, individuale e di valore sociale. La scelta personale, che può diventare assunzione di responsabilità e contributo al bene comune, anche quando può mettere a rischio la comfort zone offerta da una facile omologazione.

E quando la prospettiva non è ideologica – la persona non è comunque mai ridotta a mero, ineluttabile, prodotto di una sovrastruttura sociale, istituzionale, politica – non c’è spazio per alcuna tentazione utopistica, assente nel romanzo.

Chi si ribella non è animato dalla pretesa di costruire una nuova società delineata su un progetto alternativo; quindi, mediante una rivoluzione che – anche se diversa e di segno contrario – scaturendo da analogo errore di prospettiva sulla realtà e sulla persona in nome di un’idea, non farebbe che generare analoghi disastri. La fuga del prigioniero scaturisce ed è animata da domande autentiche, ineludibili, su di sé e sul proprio vivere nel mondo in cui si trova: «Io facevo domande, ma non mi rispondevano. O meglio, rispondevano, ma non alle mie domande».

La scoperta di un ambiente umano accogliente, che ha i volti e le voci di persone che si incontrano e che condividono una quotidianità semplice e sincera, e in cui l’ascolto dei racconti dell’”uomo senza età” fanno battere il cuore («se esiste tanto male deve esistere un bene più grande»), forse inizia a mostrare le prime risposte che, si intuisce, paiono credibili; forse perché vere.

Tutti giusti al cospetto del nulla

In un’epoca come la nostra, in cui spesso le domande fondamentali della persona sono disincentivate o mortificate, oppure in cui si attribuisce tutto il valore solo alla posizione esistenziale di chi domanda, ma si avverte il timore che qualcuno dia voce anche alle possibili risposte, nella vicenda narrata in questo libro non manca invece chi ha il coraggio di dare un nome e un volto a possibili chiavi di lettura del reale e a risposte a misura d’uomo (peraltro senza mai scadere in un eventuale intento pedagogico, magari un po’ stantìo): «Cristo risorto è stato ucciso una seconda volta, non dalla mancanza di fede, ma da quando hanno eliminato l’uso corretto della ragione»; «il peccato originale è stato sostituito dalla giustificazione socio-psicologica del desiderio edonista»; «il Medioevo in confronto era l’età dell’oro. Peccatori al cospetto di Dio. Oggi sono tutti giusti al cospetto del nulIa».

Un’agile fiction letteraria con cui l’autore – già sceneggiatore per format teatrali e televisivi di successo e di fiction internazionali per ragazzi, e curatore di brillanti rubriche nel social network, nonché, come ama definirsi, «padre di quattro figli (tutti con la stessa moglie)» – riesce a mettere al centro, in modo avvincente, realtà attuali, scenari futuri possibili e verità perenni.

Opera che, avendo anche le caratteristiche di una sceneggiatura, ben si presterebbe ad adattamenti per altri media comunicativi – graphic novel, cinema – che, valorizzandone i tratti estetici ne conservino la centralità dei contenuti, che felicemente nulla concedono al “politicamente corretto”, e finale che fa sperare in un seguito.

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