Il miracolo (irripetibile?) dell’Autosole
Cent’anni fa fu inaugurata la Milano-Laghi; sessant’anni fa l’Autosole. Ripercorrere la loro storia riempie – e giustamente – d’orgoglio, perché si trattò di due opere straordinarie, frutto – e vale la pena di spendere la parola – del genio e della laboriosità italiana. L’A8 Milano-Varese fu la prima autostrada al mondo e da ogni parte vennero per copiarcela. La prima pietra dell’A1 fu posta il 19 maggio 1956 a San Donato Milanese e l’ultima il 3 ottobre 1964, con ben tre mesi d’anticipo rispetto alle previsioni, alla presenza dell’allora presidente del Consiglio Aldo Moro. Fino ad allora, per viaggiare da Milano a Napoli ci volevano due giorni.
Grandi popoli sono capaci di costruire grandi opere e, certamente, l’Autosole lo fu. Furono realizzati 755 chilometri di autostrada per attraversare sei regioni, 113 tra ponti e viadotti, 572 cavalcavia, 38 gallerie, 57 raccordi, 56 aree di servizio. Un’opera ingegneristica di alto livello e di grande complessità: basti pensare che per realizzare la serie di viadotti tra Sasso Marconi e Barberino del Mugello si dovettero issare delle impalcature di ferro alte oltre cento metri. Per celebrarla e per ricordare i morti nei cantieri, fu eretta la Chiesa di San Giovanni Battista a Limite di Campi Bisenzio, «opera d’arte italiana» di Giovanni Michelucci.
Libertà di movimento
Una grande opera della quale, oggi, siamo poco consapevoli. Eppure è questo reticolo d’asfalto che ci permette di attraversare liberamente lo Stivale. Autostrade per l’Italia (Aspi) gestisce oggi una rete di 3 mila chilometri che attraversa 15 regioni e 60 province e che permette, ogni giorno, a 2,8 milioni di veicoli e 4,6 milioni di persone di spostarsi.
Come ha spiegato Roberto Tomasi, ad di Aspi, al Corriere della Sera «il 2024 è l’anno dei record di traffico nella storia del Paese: con quasi 50 miliardi di chilometri percorsi, abbiamo superato il record del 2007, soprattutto grazie al contributo del traffico pesante. In sessant’anni il traffico è aumentato di quasi il 500 per cento». E per il futuro, al vaglio del Mit c’è un Piano economico-finanziario che «prevede 36 miliardi di investimenti nei prossimi 15 anni».
I “no tutto” (una vecchia storia)
L’Autosole fu un “miracolo” voluto fortemente dai democristiani di allora che dovettero penare per superare le perplessità dei comunisti. Celebri sono rimaste le prime pagine e certi articoli dell’Unità in cui si accusava il governo dc di essere «al servizio della Fiat» e di privilegiare gli investimenti su asfalto anziché su rotaia. In un’edizione del 1959, il giornale di sinistra scriveva infatti che «l’autostrada del Sole rischia di trasformarsi in un elemento disorganizzatore di tante comunità locali arrecante alla collettività danni forse più ingenti degli stessi benefici». E nell’ottobre 1964, dopo che Moro l’aveva inaugurata, ancora l’Unità polemizzava sul fatto che «abbiamo l’autostrada, ma non sappiamo bene a che serve… Velocità alte e comode solo per redditi più elevati».
D’altronde, da allora, poco è cambiato, se ci pensate. La sinistra ha sempre guardato in cagnesco le grandi opere: la Metropolitana milanese, l’alta velocità ferroviaria, l’aeroporto di Malpensa, il Mose a Venezia…
Eppure l’Autosole fu un miracolo anche economico: costò circa 3,3 miliardi di euro attuali. Come ha raccontato di recente Filippo Facci sul Giornale: «Un paragone? La successiva Salerno-Reggio Calabria: concepita nel 1960, iniziata nel 1962, terminata in teoria nel 1974 (molto in teoria: a due corsie senza quella d’emergenza) e in pratica ri-terminata mai: nel 2016 fu ri-inaugurata, ma stanno facendo ancora ammodernamenti e opere complementari importanti: questo al costo di 7,5 miliardi di euro attuali, che fanno 20-21 milioni di euro al chilometro. L’Autosole, a chilometro, ne era costati 4».
Fiducia nel futuro
Con un editoriale video sul Corriere, Antonio Polito, ha posto la domanda delle domande: l’Italia di oggi sarebbe in grado di costruire, in tempi brevi e a costi contenuti, una grande opera tipo l’Autosole? Risposta facile: no. «Due esempi dei nostri giorni – dice Polito. Il primo è il ponte sullo Stretto. Pensate che la società Stretto di Messina fu costituita nel 1981 e il progetto definitivo del ponte risale a 13 anni fa. Oppure lo stadio di Milano. La telenovela per decidere se costruirlo a fianco al Meazza o abbattendo il Meazza o farne due nuovi fuori dalla città dura ormai da 15 anni e nel frattempo Milano ha perso la finale Champions del 2027».
Certo, molti “nota bene” andrebbero specificati per dire che un paragone tra l’Italia odierna e quella di allora è insostenibile (a partire dal fatto che ai giorni nostri, a causa della densità abitativa, far passare un’autostrada sul già complicato territorio italiano è più difficile). Ma resta vero che, oltre al poco coraggio di tanti amministratori e oltre all’oggettiva invadenza della burocrazia e della magistratura, è venuta meno oggi l’idea che valga la pena impegnare tempo e denaro per costruire una grande opera che sia di beneficio per sé e per i posteri. A prevalere sono la sfiducia, l’egoismo, il sospetto (non si fa in tempo ad aprire un cantiere che nasce un comitato contrario, si fa baccano sui giornali, parte l’inchiesta della Procura).
Al fondo, è un problema di fiducia nel futuro. Nessuno si prende il rischio di costruire qualcosa, se non ha alcun erede a cui lasciare la sua opera. È (anche) dalle grandi opere che si misura la speranza di un popolo.
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