
«Mio padre Giovanni Guareschi non nascose il talento in una buca»

Diceva il cardinale Biffi che nei racconti di Giovannino Guareschi «capita di scoprire folgorazione teologiche degne dei più profondi pensatori cristiani» (in Pinocchio, Peppone e l’Anticristo e altre divagazioni). Giovannino, per “ironia della sorte”, nacque il primo maggio – giorno della festa comunista per antonomasia – del 1908 e ci lasciò il 22 luglio 1968, alle porte della rivoluzione omonima. Egli nacque a Fontanelle di Roccabianca (Parma), in quella “fettaccia” di terra che va dal Po alla via Emilia e che costituisce la “capitale” del suo Mondo Piccolo (piccolo ma universale).
Marito, padre, giornalista, scrittore, umorista, caricaturista e, soprattutto, sub-creatore di don Camillo e Peppone (nati su Candido il 28 dicembre 1946), le cui avventure letterarie hanno ispirato sei film di grande successo, grazie anche alle intramontabili interpretazioni di Fernandel (don Camillo) e di Gino Cervi (Peppone). I suoi libri sono al secondo posto dei libri di narrativa più tradotti al mondo. Con 311 traduzioni (anche in ebraico, coreano, giapponese e swahili), segue Il Piccolo Principe, che è stato tradotto in oltre 600 lingue, e sta davanti a Le avventure di Pinocchio di Collodi, che vanta 261 traduzioni. Grazie anche all’estrema generosità di questo autore, come ricorda Guido Conti: «È difficile quantificare le edizioni [di Don Camillo] in lingue particolari perché eseguite normalmente da missionari su permesso di Giovannino a titolo gratuito» (in Giovannino Guareschi. Biografia di uno scrittore).
Di tutto ciò, ma non solo, ho parlato con Albertino “Sputnik”. Questi, da quando la “Pasionaria” è tornata alla Casa del Padre (2015), è supportato dalle figlie Angelica e Antonia nella cura delle preziose opere che arricchiscono la casa di famiglia (“Incompiuta”), che sorge a Roncole Verdi, sul pezzo di terra che Giovannino comprò nel 1952 a fianco della casa di Giuseppe Verdi. Le opere sono una mostra antologica, l’associazione Club dei Ventitré (chi scrive ha l’onore di essere tra i suoi consiglieri) e l’imponente archivio con tutta la documentazione riguardante il padre, compreso il suo celebre “presepino”.
Tra i frutti più recenti, vi sono Caro Nino ti scrivo. Giovannino Guareschi in carcere, con la prefazione di Giovanni Lugaresi, e la mostra itinerante Tutto il mondo di Guareschi. Pensiero e vita di un grande italiano.
Come viveva suo padre l’impegno nel giornalismo e nella scrittura? Si può dire che suo padre compiesse un vero e proprio apostolato al servizio di Dio e dell’uomo?
Da «vecchio cronista della Gazzetta di Parma» come lui si è definito, nel suo lavoro raccoglieva le segnalazioni avallate da documenti che gli inviavano i lettori (tranne quelle anonime) e nell’esposizione dei fatti agiva con serenità di giudizio, senza partire da tesi preconcette, alla ricerca della verità che è trascendente. Nel suo primo quaderno di scuola compare la frase: «Ricordati di dire sempre la verità». Sembra quasi una consegna che gli ha dettato la sua insegnante, consegna che non ha mai dimenticato. In questo senso si può parlare di una sorta di dovere verso i suoi lettori nel pieno rispetto delle leggi divine.
Perché negli anni Sessanta suo padre non risparmiò critiche ai don Chichì “lercaromontinolapiroroncalliano”, che con troppa faciloneria aprirono la stagione del cosiddetto Novus Ordo?
Mio padre scrisse le sue critiche ai numerosi sacerdoti che, equivocando le nuove disposizioni del Concilio Vaticano II, all’insegna della “demitizzazione” (e della confusione spirituale) avevano invece desacralizzato la liturgia che, influenzata dalla cultura secolarizzata, perdeva la sua identità.
Quali erano gli autori che ispirarono suo padre? Tra questi vi era anche Chesterton? Lo chiedo considerate le profonde affinità (a iniziare dall’umorismo) tra i due.
La sua preparazione culturale è iniziata nel collegio “Maria Luigia” di Parma dove ebbe la fortuna di avere come insegnante Ferdinando Bernini, maestro di un’intera generazione di studenti, che lo avvicinò ai classici latini e greci e gli fece scoprire uno dei primi umoristi italiani, fra Salimbene de Adam. Continuò la sua preparazione leggendo i grandi della letteratura russa, tra questi Dostoevskij e Tolstoj, e della letteratura francese (i suoi preferiti erano Victor Hugo e Guy de Maupassant). Aveva letto i grandi autori del Novecento americano tra i quali prediligeva Ernest Hemingway. Nella biblioteca di mio padre esiste un solo libro di Chesterton: L’uomo che fu Giovedì, scritto prima della sua conversione al cattolicesimo. Non sono all’altezza per giudicare se la lettura di questo libro possa avere sviluppato in lui delle affinità con Chesterton né ricordo di aver mai sentito mio padre parlare di lui.

Ad un certo punto, Giovannino incontrò anche Cesare Zavattini, tra i più importanti punti di riferimento del neorealismo nostrano. Che rapporto c’era tra i due? Si può dire che Zavattini “scoprì” il talento per la scrittura di suo padre, avviandolo al mestiere del giornalista?
Mio padre, convittore al “Maria Luigia”, ebbe la fortuna di conoscere Zavattini, di sei anni più vecchio di lui, che faceva l’istitutore per mantenersi agli studi all’università. Zavattini intuì subito le sue doti: fanno testo le sue note sulle pagelle bimestrali firmate poi dal rettore. Due di queste sono emblematiche perché segnate, prima e dopo, un terribile fallimento del padre: «Troppo spiritoso. La sua verve è spesso inopportuna. Le sue mancanze sono conseguenza d’irrefrenabili doti umoristiche. Veramente intelligente, ottiene per lo studio, coi minimi mezzi, i massimi risultati». L’ultima nota rivela un’improvvisa insofferenza per la disciplina a causa dei grossi disagi economici del padre: «È un caposquadra pericoloso. Per fare dello spirito casca facilmente nell’indisciplina. Crede che la sua ottima posizione di scolaro [prima del fallimento del padre…] sia il salvacondotto di non rare licenze». L’incontro con Zavattini è stato la sua fortuna perché l’ha introdotto nel mondo del giornalismo come correttore di bozze alla Gazzetta di Parma. In seguito lo ha segnalato all’editore Rizzoli come redattore per il settimanale umoristico Bertoldo. Dopo il trasferimento di Zavattini a Roma i loro rapporti si sono diradati, tenuti vivi da divertenti polemiche giornalistiche dovute all’avvicinamento di Zavattini al partito comunista.

Da dove ha tratto l’ispirazione per don Camillo e Peppone?
Peppone nasce da una costola di Giovanni Faraboli, segretario della Cooperativa Socialista di Fontanelle frazione di Roccabianca, la cui sede era nella casa dei mie nonni dove è nato mio padre. L’ispiratore del personaggio di don Camillo è don Lamberto Torricelli, un omaccio alto due metri con “mani grandi come badili” parroco di Marore, paesino dell’hinterland parmense dove nel 1915 è stata trasferita la maestra Lina Maghenzani, madre di mio padre. L’incontro è determinante perché nel 1925, piombato in una profonda crisi per il fallimento paterno che aveva ridotto sul lastrico la famiglia, mio padre trascura gli studi ed è rimandato in latino e storia nell’esame per il passaggio dal ginnasio al liceo. Bisogna rimediare a settembre e in un paesino come Marore l’unica persona che può dargli ripetizione di latino e storia senza chiedere una lira è il prete. Anni dopo, Giovannino scriverà su Candido: «Don Camillo assomiglia molto al mio vecchio parroco di campagna che, tra una sberla e l’altra, mi ha dato ripetizioni di latino».
Quanto vi è di suo padre in don Camillo e Peppone?
Mio padre diceva che i due personaggi erano i due ventricoli del suo cuore.
Ovviamente, non va dimenticato il Crocifisso parlante di don Camillo, che nei racconti è molto più presente che nei film: lo possiamo inserire senza problemi tra i principali protagonisti del Mondo piccolo?
La voce del Cristo dell’altar maggiore è uno dei principali protagonisti del Mondo piccolo perché mio padre diceva che quella del “suo” Cristo dell’altar maggiore era la voce della sua coscienza…
Il Mondo piccolo è la trasposizione letteraria della Bassa? Se sì, quale parte della stessa è il Mondo piccolo?
Mio padre scrive nella prefazione di Don Camillo: «Mondo piccolo è un puntino nero che si muove, assieme ai suoi Pepponi e ai suoi Smilzi, in su e in giù lungo il fiume per quella fettaccia di terra che sta tra il Po e l’Appennino: ma il clima è questo». Il territorio a cui pensava mio padre confina a sud con la Via Emilia, a Nord con il Po, a est con il torrente Enza e a ovest con il torrente Ongina…
Qual è la differenza sostanziale tra il Mondo Piccolo raccontato dai libri e quello mostrato dai film?
La prima differenza è geografica perché il regista del primo film, Julien Duvivier, ha scelto Brescello come paese ideale spostando il confine immaginario del Mondo piccolo a Est, oltre il torrente Enza. La seconda differenza, veramente sostanziale, è stata condizionata dal contesto storico: il primo film della serie è stato girato nel 1951 e la regia è stata rifiutata dai grandi registi italiani che temevano di dare fastidio al partito comunista allora fortissimo. Julien Duvivier, il regista francese che accettò l’incarico, grande artista, per prudenza fece modificare la sceneggiatura banalizzando il messaggio contenuto nei racconti di Mondo piccolo. Questo non toglie però valore ai film che vanno di forza propria e hanno la propria dignità (grazie anche alla fedeltà ai dialoghi scritti da mio padre).

E non mancano nemmeno le numerose storie in cui Giovannino rese isuoi cari protagonisti: dal Corrierino delle famiglie alle rubriche curate per Oggi e Il Borghese. Che ricordo ne ha? Anch’esse possono spiegare il successo che suo padre continua ad avere?
Il segreto del successo delle cronache familiari sta nel fatto che i personaggi della famiglia Guareschi letteraria sono molto simili quelli delle famiglie normali e i lettori si riconoscevano in loro. Mio padre spiega che «il succo della famigliola di Giovannino è quello stesso identico di milioni di famiglie “comuni” (…) Perché io vi parlo sempre di me e della gente di casa mia? Per parlarvi di voi e della gente di casa vostra. Per consolare me e voi della nostra vita banale di onesta gente comune. Per sorridere assieme dei nostri piccoli guai quotidiani. Per cercar di togliere a questi piccoli guai (piccoli anche se sono grossi) quel cupo color di tragedia che spesso essi assumono quando vengano tenuti celati nel chiuso del nostro animo. Ecco: se io ho un cruccio, me ne libero confidandolo al Corrierino. E quelli, fra i lettori del Corrierino, che hanno un cruccio del genere nascosto nel cuore, trovandolo raccontato per filo e per segno nelle colonne del Corrierino, si sentono come liberati da quel cruccio. Infatti quel cruccio, da problema strettamente personale, diventa un problema di categoria. E, allora, è tutta un’altra cosa».
Le trasposizioni cinematografiche dei suoi libri su don Camillo furono caratterizzate da rapporti conflittuali con i cineasti e i produttori. Perché?
Il produttore gli commissionava le sceneggiature che lui realizzava in chiave umoristica. Gli sceneggiatori “ufficiali” che gli venivano affiancati apportavano tagli, modifiche e aggiunte che le banalizzavano perché, avendo un’opinione piuttosto bassa degli spettatori medi, credevano che non avrebbero compreso il suo umorismo. Questi conflitti, nati dal suo desiderio di difendere le sue opere dalle modifiche dettate da ragioni ideologiche o commerciali, si sono verificati per tutte le sceneggiature con relative arrabbiature…
Qual è il film peggiore e quale il migliore per lei?
Amo il terzo film della serie Don Camillo e l’onorevole Peppone, mentre ritengo Don Camillo monsignore, ma non troppo il film più “debole”.
E che cosa pensava di Fernandel e Cervi?
Mio padre ha scritto che Gino Cervi corrispondeva pienamente al suo Peppone. Fernandel invece non corrispondeva fisicamente al suo don Camillo però era talmente bravo che anche lui, scrivendo altri racconti della serie Mondo piccolo, era obbligato a fare agire il suo pretone con il volto di Fernandel.
La vita di suo padre fu segnata da due terribili prigionie: quella nei lager di Czestochowa, Sandbostel e Wietzendorf, e quella di 409 giorni nel carcere San Francesco di Parma in seguito alle accuse di vilipendio e diffamazione delle istituzioni (caso De Gasperi e caso Einaudi). Che cosa ci può raccontare al riguardo?
Io consiglio a chi vuole avere notizie dettagliate su queste due “prigionie” la lettura di due libri: Chi sogna nuovi Gerani? Giovannino Guareschi che ho curato assieme a mia sorella e il libro che ho scritto l’anno passato Caro Nino, ti scrivo.
Per quanto dure, possono essere ugualmente considerate palestre dello spirito, in cui suo padre crebbe nelle virtù? (altrimenti, non ci sarebbero state opere preziose come La favola di Natale e Diario clandestino).
Possiamo considerare come una “palestra dello spirito” il periodo dell’internamento nei lager tedeschi perché questo è, paradossalmente, il più importante della sua vita. Infatti proprio tra i reticolati ha scoperto in sé delle doti che non sospettava di possedere: tra queste la predisposizione a farsi carico dei problemi degli altri. Le foto segnaletiche ufficiali dei lager e quelle clandestine ce lo mostrano magro e con lo sguardo intenso, consapevole e profondo, di chi sa di avere un compito da svolgere. Non nasconde in “una buca nel terreno” il talento che gli ha donato il Padreterno, lo mette a frutto svolgendo coraggiosamente nel lager il suo impegno umano per aiutare i suoi compagni a non lasciarsi andare alla disperazione. Non considero “palestra dello spirito” il periodo passato nel carcere di Parma che considero solo come “palestra della sofferenza”.
«Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no» era uno dei famosi slogan con i quali, durante le elezioni politiche del ’48, Guareschi fece campagna elettorale contro il Fronte Democratico Popolare (alleanza Pci-Psi). Quanto è stato determinante il suo impegno nell’assicurare la vittoria alle forze anticomuniste guidate dalla Dc?
Mio padre su Candido, settimanale fondato nel 1945 assieme a Mosca e a Mondaini, si è schierato assieme ai colleghi contro il Fronte Democratico Popolare, contribuendo in modo decisivo alla sua sconfitta, disegnando due manifesti elettorali: il primo è quello tragico, raffigurante lo scheletro di un caduto dell’Armir che, aggrappato a un reticolato, indica col dito scheletrito il simbolo del Fronte Democratico Popolare e dice: «Mamma, votagli contro anche per me!». Sul manifesto appaiono: in alto la scritta: «100.000 prigionieri italiani non sono tornati dalla Russia» e sotto, il simbolo falce, martello e la stella con sopra il volto di Garibaldi. Il manifesto ha avuto un forte impatto sugli italiani perché tantissime famiglie avevano allora un disperso, un prigioniero o un caduto in Russia e venne adottato dai Comitati Civici costituiti dal professor Luigi Gedda su incarico di papa Pio XII in vista delle elezioni politiche, e appiccicato sui muri di tutt’Italia.
Il secondo manifesto rappresenta un votante indeciso all’interno della cabina elettorale. In alto, la scritta «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no» è rivolta agli elettori di sinistra per convincerli a votare contro il Fronte: se Giovannino, invece che di profilo, avesse ritratto il votante di fronte sul suo volto si noterebbe la presenza massiccia di una “terza narice”… Anche questo manifesto è stato molto efficace, grazie anche alla accesa propaganda che i preti fecero a favore della Democrazia cristiana, allora argine contro il Fronte. I preti avevano ancora un forte ascendente sui comunisti che si sposavano in chiesa e battezzavano i figli, e la Congregazione del Sant’Uffizio non aveva ancora pubblicato il decreto di scomunica. Molti votanti di sinistra votarono contro il Fronte.
Come affrontava il fatto di essere ignorato da buona parte dell’intelligencija nostrana?
Una volta, commentando questo fatto e il suo successo letterario all’estero, scrisse: «Si vede che all’estero si sbagliano…».
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