Meglio morti che vuoti
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Nel numero 18 di Tempi ci siamo occupati di Le djihad et la mort, l’ultimo libro del sociologo e studioso francese dell’islam Olivier Roy, dal 2009 docente all’Istituto universitario europeo di Firenze, e prima di allora ricercatore presso il Cnrs (il Cnr francese). La tesi centrale del libro, come di altri saggi precedenti, è che in Europa il terrorismo di marca jihadista non nascerebbe da una radicalizzazione dell’islam, ma da un’islamizzazione del radicalismo. Dopo quel servizio la cronaca ha registrato eventi riconducibili ai temi al centro delle ricerche di Roy come l’accoltellamento di alcuni uomini delle forze dell’ordine da parte dell’italo-tunisino Ismail Tommaso Ben Yousef Hosni a Milano, il sanguinoso attentato del 22 maggio che ha causato 22 morti e 122 feriti a Manchester, opera di Salman Ramadan Abedi, un anglo-libico di 22 anni, terzo di quattro fratelli di una famiglia di rifugiati libici, e quello avvenuto la sera di sabato 3 giugno nei pressi del London Bridge, dove tre uomini hanno travolto la folla con un furgone e poi accoltellato i passanti, uccidendo 7 persone e ferendone 48 prima di essere abbattuti dalla polizia. Olivier Roy ci ha infine concesso un’intervista dove affronta le vicende dell’attualità e approfondisce e giustifica le sue tesi rispetto alle critiche e alle obiezioni più comuni.
L’assenza del fenomeno banlieue in Italia limita l’apparizione di una categoria di giovani in rottura con la società e “l’effetto di gruppo”. Infatti sappiamo che spesso la radicalizzazione ha luogo nel quadro di un gruppo di pari (studenti di una stessa scuola, giovani di uno stesso quartiere o che si sono conosciuti in prigione). D’altra parte anche il fatto che l’immigrazione sia recente in Italia limita per il momento il numero di appartenenti alla seconda generazione che ovunque costituiscono l’essenziale della radicalizzazione. Invece da nessuna parte i rifugiati forniscono militanza ai radicalizzati. La radicalizzazione è un fenomeno proprio della seconda generazione di immigrati. Mentre i rifugiati generalmente hanno fuggito situazioni di guerra civile e sono meno suscettibili di essere attirati dagli estremismi ideologici. In poche parole, i radicali non sono in marcia verso l’Occidente: ci sono già nati, a cominciare naturalmente dai convertiti.
La tesi del suo libro – tradotto nel frattempo in italiano da Feltrinelli con il titolo Generazione Isis – a proposito del terrorismo che si richiama all’Isis è che ci troviamo di fronte a un’islamizzazione del radicalismo piuttosto che a una radicalizzazione dell’islam. I giovani europei che diventano jihadisti, però, sono quasi tutti figli di immigrati musulmani: non ci sono figli di immigrati latinoamericani o dell’Europa dell’Est fra di loro, e pochi giovani autoctoni. Perché mai la rivolta dei giovani contro il sistema che sfocia in lotta armata sarebbe un’esclusiva dei giovani musulmani, mentre gli altri dovrebbero accontentarsi del rap e delle gang di quartiere?
C’è un 25 per cento circa di convertiti fra i radicali e questo numero aumenta ovunque. Fra questi convertiti troviamo un 50 per cento circa di autoctoni bianchi e un 50 per cento di neri (è questo il caso in Francia, in Germania, nel Regno Unito e negli Stati Uniti). Troviamo anche molti latinos negli Stati Uniti e indù o africani cristiani convertiti all’islam in Gran Bretagna. Non si può dire che «quasi tutti i radicali» provengano dall’immigrazione islamica. Si possono trovare giovani musulmani nel mondo del rap e della cultura delle gang che non sono passati attraverso la casella della radicalizzazione jihadista: Marsiglia per esempio ha visto nascere un banditismo giovanile che ha preso il posto (o si è alleato) con le mafie tradizionali, al prezzo di decine di morti ogni anno; ma allo stesso tempo Marsiglia ha uno dei tassi più bassi di radicalizzazione islamica dei suoi giovani musulmani. Non è l’origine religiosa che spiega la radicalizzazione: in tal caso ce ne dovrebbero essere molti di più, dato che l’Europa occidentale conta fra i 12 e i 14 milioni di musulmani. È la forza di attrazione e di seduzione della costruzione narrativa messa in piedi da Al Qaeda e dall’Isis. Questa costruzione evidentemente vuole essere islamica: si richiama all’immaginario politico dei primi tempi dell’islam, ma s’inscrive nel linguaggio della cultura giovanile di oggi, fa propria l’estetica della violenza che è al cuore dei videogiochi e dei film splatter.
Lei scrive che la radicalizzazione religiosa dei jihadisti non avviene nelle moschee, con l’eccezione relativa del Regno Unito, ma in piccoli gruppi di persone o su internet. Bisognerebbe fare più attenzione sia alle palestre (quelle per gli sport di combattimento) sia alle moschee. Questo significa che le moschee non possono essere veramente di aiuto nell’impedire la radicalizzazione di giovani musulmani?
Ci sono due problemi differenti. Anzitutto la questione concreta dei luoghi dove si formano i gruppi radicali: sappiamo che, con poche eccezioni, la regola generale è che il quartiere, la palestra e soprattutto la prigione svolgono un ruolo più importante della moschea. Ma la seconda questione è quella della legittimità del discorso religioso manipolato dai radicali, e sotto questo aspetto la moschea può svolgere un ruolo per negare questa legittimazione. Certo, i radicali non verranno mai convinti da un teologo moderato che contesta l’uso che essi fanno dei termini jihad e martirio. Non si combatte il radicalismo col catechismo. Ma le moschee possono giocare un ruolo importante isolando i radicali e il loro discorso dalla massa dei musulmani. Un movimento radicale, che si tratti dell’Isis o delle Brigate rosse, ha un futuro soltanto se può articolarsi su movimenti sociali. Se le Brigate rosse hanno fallito, è perché la classe operaia italiana è rimasta inquadrata dai sindacati, non perché dei professori di marxismo hanno dimostrato che la loro lettura di Karl Marx era sbagliata. Non si potrà mai impedire a dei giovani di radicalizzarsi, ma bisogna fare in modo che il loro radicalismo non trovi base sociale, ed è qui che le moschee hanno un ruolo importante da svolgere. Perché se ci si sforza di cacciare l’elemento religioso dallo spazio pubblico per meglio combattere il terrorismo, come si fa in Francia, allora si regala l’elemento religioso ai radicali.
Lei ha anche scritto che entrare nell’Isis equivale a stringere un patto di morte, che il jihadismo dell’Isis è un culto della morte e della violenza di cui la creazione del Califfato è solamente la giustificazione ideologica. I jihadisti sarebbero più dei nichilisti che degli utopisti. Non crede che siano in continuità con la tradizione degli shahid, i martiri del jihad che sono ben radicati nella cultura religiosa islamica?
Lo shahid, nella tradizione islamica, è colui che muore in combattimento “sulla via di Dio”, non colui che si suicida. Il suicidio è vietato nell’islam come in tutte le religioni monoteiste, perché si frappone alla volontà di Dio. È per questo che i radicali fanno ricorso a neologismi come “inghimasi” per descrivere (e santificare) l’operazione suicida. Certo, definiscono l’autore di un tale atto shahid, cercando di collegare la loro innovazione a una tradizione. Ma non c’è tradizione nell’attentato suicida: la modalità dell’attentato suicida è stata messa a punto dalle Tigri Tamil (terroristi srilankesi di estrazione indù, ndt) alla fine degli anni Settanta, è stata ripresa dagli sciiti negli anni Ottanta prima di passare presso i sunniti negli anni Novanta. Come nel caso degli sgozzamenti messi in scena e filmati, o degli stupri, l’Isis riformula una violenza molto moderna in una fraseologia che spesso non è che una parodia della sharia.
Lei ha anche scritto che la pulsione di morte, per utilizzare un’espressione freudiana, che spinge i giovani jihadisti a immolarsi per l’Isis, non esenta l’islam dalle sue responsabilità, non assolve l’islam. Quali sarebbero queste responsabilità?
L’islam, come il cristianesimo, non esiste come un insieme statico, permanente e omogeneo. Madre Teresa o Bartolomeo de Las Casas non assolvono l’Inquisizione, i conquistadores spagnoli o gli autori del massacro della Notte di San Bartolomeo. L’irruzione della pulsione di morte nel campo religioso è un problema ricorrente, che prende forme differenti e parossistiche a seconda delle epoche e delle religioni. Il problema non è teologico, perché ogni teologia è un’interpretazione. Il problema è politico e direi etico. È quello della responsabilità morale dei correligionari in una data epoca. Ora, molti musulmani ci hanno messo del tempo per comprendere la specificità del radicalismo islamico contemporaneo, come d’altra parte molti non musulmani (quelli che a sinistra danno la colpa anzitutto all’imperialismo occidentale, e quelli che a destra la danno al Corano). Le condanne teologiche del radicalismo da parte degli ulema si contano a migliaia dopo l’11 settembre, ma il problema è di sapere e potere parlare ai giovani affascinati dal radicalismo, non di fare grandi dichiarazioni su «l’islam è una religione di pace!». In buona sostanza, il punto è il lavoro sociale degli imam e dei predicatori, non i discorsi ex cathedra di autorità religiose che spesso hanno perso ogni prestigio per la loro associazione coi regimi dominanti e autoritari. Il punto è la risocializzazione del religioso nelle società secolarizzate. Perché oggi, per molti giovani, l’estremismo religioso è esattamente la forma più radicale di contestazione sociale.
Lei dice anche che l’integrazione non è la bacchetta magica che impedisce la radicalizzazione, mentre la sua assenza la favorirebbe, e fa degli esempi convincenti: i fratelli Kouachi (responsabili del massacro di Charlie Hebdo) avevano avuto tutto da parte delle istituzioni e lavoravano, i fratelli Abdeslam (massacro del Bataclan a Parigi) avevano un bar a Moelenbeek, eccetera. In generale, i jihadisti appaiono integrati nel bene e nel male alla sottocultura giovanile contemporanea prima di diventare jihadisti. Si può immaginare che se fossero un po’ meno integrati, se fossero più tradizionalisti, non sceglierebbero la lotta armata?
Il problema è che cosa intendiamo per integrazione. Se consiste nell’avere un lavoro, parlare francese o italiano e avere una famiglia, questo non è affatto sufficiente. La pulsione di morte è attivata più dal vuoto spirituale e culturale che dalla miseria sociale. In poche parole, si parla sempre e solo della questione sociale e mai della questione morale o spirituale. La religione non è semplicemente un rifugio, essa può essere un bisogno, una forma di realizzazione di sé, anche suicidaria come nel caso dei radicali islamici. E quando l’offerta (il jihadismo) incontra una domanda, fortemente radicata in una cultura giovanile, nichilista e molto occidentale, allora si comprende meglio il passaggio all’atto. Certo, la cultura giovanile non è in sé suicidaria, ma è fortemente radicata in un’estetica della violenza, nel culto della realizzazione di sé e nella ricerca del parossismo. «No future» e «Born to Kill» non sono versetti del Corano.
Lei sottolinea che al contrario della rivoluzione bolscevica o della rivoluzione islamista iraniana, l’Isis distrugge il patrimonio storico. Anche la rivoluzione culturale cinese lo faceva. C’è un legame fra le due cose?
Sì, l’Isis e la rivoluzione culturale cinese sono delle rivoluzioni generazionali, che implicano una rivolta contro i genitori e un’iconoclastia generalizzata. Non riscrivono la storia (come hanno fatto i sovietici), la cancellano. Il rapporto dei radicali con la famiglia e con la paternità è tuttavia ancora più complesso e fonte di turbamento: questi giovani mettono al mondo dei figli subito prima di morire; non li allevano, ma li affidano all’organizzazione in Siria e in Iraq, oppure li abbandonano in Occidente. Un numero straordinario di radicali hanno messo al mondo un figlio poco prima di immolarsi o di farsi uccidere, come nel caso della coppia di autori dell’attacco di San Bernardino negli Stati Uniti nel 2016. Allo stesso modo si trova un numero elevato di gruppi di fratelli nelle cellule radicali (compresi i convertiti): ci si uccide insieme al proprio fratello. In poche parole, si rifiuta ciò che è trasmesso dai genitori e allo stesso tempo ci si proibisce di trasmettere qualcosa ai propri figli. Forse proprio questo è il nichilismo.
Foto Ansa
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