Maturità 2014. Un grande romanziere dimenticato del Novecento: Federigo Tozzi

Di Giovanni Fighera
03 Giugno 2014
Di fede anarchica Tozzi si convertirà poi al cattolicesimo. Eppure le antologie scolastiche spesso trascurano o travisano il carattere religioso della sua opera

tozzi federigoAnche quest’anno tempi.it dedica uno spazio speciale alla preparazione dell’esame di maturità. Lo trovate qui e sarà in continuo aggiornamento.

La vita
Senese di nascita, Federico Tozzi (1883-1920) proviene da una famiglia problematica: la madre è ammalata di epilessia, mentre il padre, grande e corpulento, è manesco. Solo quando questi morirà, nel 1908 Federico sposerà Emma. Gli studi di Tozzi sono irregolari. Dopo aver provato con insuccesso ad inserirsi nella professione giornalistica, all’età di ventisette anni inizia a pubblicare opere in versi e in prosa. Ma i suoi romanzi principali escono tra il 1919 e il 1921: Ricordi di un impiegato, Con gli occhi chiusi, Tre croci, Il podere. Colpito da febbre spagnola, Tozzi spirerà nel 1920.

I romanzi
Di fede anarchica Tozzi si convertirà poi al cattolicesimo. Determinante sarà l’incontro con lo scrittore Domenico Giuliotti (1877-1957) con il quale fonderà la rivista cattolica La torre, così come altrettanto centrale nel suo percorso di fede sarà la scoperta delle opere dei due santi più noti di Siena, santa Caterina e san Bernardino. Eppure le antologie scolastiche spesso trascurano o travisano il carattere religioso della sua opera. Leggiamo ad esempio in un importante e lodevole testo scolastico: «Tozzi fu dichiaratamente cattolico, […] ma Dio è sostanzialmente assente dalla sua opera o si manifesta esclusivamente come un Dio Padre ostile e terribile, come tutte le figure paterne, che punisce i suoi figli per debolezze e colpe che rimangono oscure e coincidono con la loro stessa inettitudine alla vita» (H. Grosser).

I romanzi Tre croci e Con gli occhi chiusi rappresentano il polo epico e quello lirico della sua scrittura, l’uno tutto spalancato agli altri, alla loro vita e al loro dramma, il secondo più legato al dato autobiografico dell’autore. Comunque, «nei romanzi di Tozzi, anche in quelli del Tozzi che ambisce ad essere un romanziere sociale, il personaggio autobiografico non manca mai» (Carlo Cassola).

Senza dubbio, il peso della figura paterna dello scrittore si sente non solo nella sua vita, ma anche nelle opere. Con gli occhi chiusi ne è la chiara testimonianza. Il protagonista Pietro Rosi si innamora in gioventù della bella Ghisola, contadina nel podere del padre che a causa di questo amore la allontana. Dopo molti anni Pietro la ritrova, ormai adulto, e vorrebbe sposarla, credendo alla sua purezza e al suo amore. La donna, invece, ha condotto fin lì una vita licenziosa, segnata da un’imminente gravidanza. Pietro capisce solo allora la menzogna della donna e apre gli occhi. «In una prospettiva religiosa (e non psicoanalitica […]) devono essere ricondotti tutti i grandi temi del romanzo: l’incomunicabilità degli individui, che rende infernale la condizione umana, […] il mistero di ogni atto» (Franco Petroni, Le parole di traverso). Lo stesso titolo Con gli occhi chiusi deriverebbe da un passo del De imitazione Christi: «Beati gli occhi che sono chiusi alle cose esteriori» (secondo F. Petroni) e che, quindi, si aprono alla visione delle cose più profonde. Quindi, avere gli occhi chiusi non sarebbe solo interpretabile come segno di inettitudine, come spesso è stato fatto dalla critica, ma anche come capacità di aprirsi ad una dimensione «altra» e conoscibile solo attraverso il cuore.

Scritto in soli sedici giorni, Tre croci, invece, trae spunto da un fatto che non riguarda direttamente l’autore. «Ciò che dovette invogliare Tozzi a scrivere Tre croci è proprio l’estraneità alla materia, il fatto di poter disporre per la prima volta di un tema che non aveva a che fare con lui. Che avevano a che fare con lui i fratelli Torrini, vecchi librai di Siena, morti tragicamente e prematuramente dopo aver conosciuto la vergogna delle firme falsificate e della bancarotta?» (C. Cassola).

Tozzi fa dei tre fratelli i protagonisti tragici dell’opera, quasi degli eroi, o, forse, sarebbe meglio dire degli antieroi nella loro abulia, nell’incapacità a gestire gli affari fiorenti lasciati dal padre, nella comune malattia della gotta. I tre, Niccolò, Giulio ed Enrico, vivono insieme e con loro vivono pure tre donne, la moglie di Niccolò (Modesta) e due nipoti (Chiarina e Lola). La scoperta della falsificazione delle cambiali porta alla tragedia. Giulio, che ha concretamente operato la falsificazione, si suicida. Niccolò muore poco dopo. L’ultimo capitolo è memorabile. «Enrico, come della cambiale, seppe alla bettola che Niccolò era morto prima dell’alba. Era, ormai, stralinco; con le mani e le gambe gonfie; con la bocca livida; da cui non esciva più nessuna parola che non facesse sentire una cattiveria quasi repugnante. Stava seduto, con un bicchiere di vino davanti». Finisce solo, in un ospizio per poveri. La fine sembrerebbe richiamare le ultime pagine di Mastro Don Gesualdo, che muore solo, vittima e vinto dal suo stesso desiderio di soldi e di possesso, non capito e non accolto nella casa della figlia Isabella. Ma a differenza che nelle opere verghiane, qui opera la grazia, anche attraverso i volti degli uomini. Campeggia nelle ultime scene la figura di Modesta, che cerca di parlare con Enrico, gli dona qualche lira e gli chiede: «Perché, almeno, non ti converti a Dio? Anche il povero Niccolò è morto senza potersi confessare; e Giulio s’è ucciso. Forse, stanno male tutti e due; ora. Bisogna pensare alle loro anime». Modesta continua a insistere con Enrico: «Vai a farti aiutare dai canonici del Duomo». La donna pensa, così, di far riavvicinare alla chiesa il cognato. Ma le sue iniziative sono inutili. Enrico frequenta i luoghi «più deserti e più sporchi di Siena», le uniche persone a cui tiene realmente sono le due nipoti e, pur temendo che loro lo possano vedere ridotto in quello stato, desidererebbe la loro visita domenicale. Un giorno, confessa: «Se io muoio presto, vi prego di dire alle mie due nipoti, che verranno a vedermi, che io m’ero messo a lavorare. […] Anch’io ho un briciolo di coscienza. E soltanto quelle bambine capiscono che è vero». Una notte, preso da un nuovo attacco di gotta, muore «senza né meno accorgersene». Le due nipoti dispongono «due mazzetti di fiori sul letto» e pregano «con le mani congiunte vicino ai mazzetti di fiori; e, in mezzo a loro, il morto» diventa «sempre più buono». Tre croci, tutte uguali, vengono comprate e poste «al Laterino». Quest’umanità peccatrice, che sembra sorda e refrattaria a qualsiasi conversione, quest’umanità «del sottosuolo», per usare un’espressione cara a Dostoevskij, cammina al fianco di uomini e donne che sono più coscienti della grazia salvifica. La nostra vita di peccato, di dolore e di sofferenza ha bisogno di una redenzione, di un abbraccio amorevole, della preghiera di chi crede.

Così il personaggio Ugo Carraresi del romanzo Gli egoisti riconosce la grazia di Dio ed esclama: «Io non credo che a Dio. Ho abolito tutto in me. Mi sento ricco perché mi sento povero. Tutto il resto per me non esiste più. Soltanto mi sento uomo perché credo in Dio». C’è molto di autobiografico in queste parole che riecheggiano quanto Tozzi scrive in un articolo de La torre: «L’uomo che cerca Dio esalta la propria individualità; perché cercare Dio significa spingere l’anima fin dove le è concesso di arrivare […]; la nostra religione, così trascurata e sbassata da tutti i trattati di psicologia, è il motivo spontaneo della nostra anima».

Invito alla lettura

Con gli occhi chiusi;

Tre croci;

Gli egoisti.

Proposta di analisi di testo

Federigo Tozzi, Le tre croci, ultimo capitolo del romanzo.

Cominciava a pioviscolare, ed era un’acqua così diaccia che faceva venire i brividi. Tutto il vecchio cimitero era stato scavato. Avevano addossato le lapidi al muro di cinta; e le croci erano tutte una catasta accanto a un cippo. I cipressi odoravano; come se la pioggia facesse escire i loro succhi. E gli uccelli saltellavano sul muro di cinta.

Il guardiano, per avvertire ch’era venuto, fischiò al becchino; e disse a Enrico:

– La fossa è quella.

– Sei proprio sicuro?

– Per una settimana almeno, me ne ricordo di tutte e sono sicuro di non sbagliare. Ora che cosa fai?

– Ho voluto vedere qual è per tornarci con più agio.

Gironzolò un poco attorno alla fossa, fin quasi a metterci un piede sopra; poi, tornò via. Il guardiano gli tenne gli occhi dietro finché non ebbe ripassato la cancellata. Enrico, allora, si ricordò di come il fratello l’aveva lasciato proprio in quel punto; e sentì stringersi i pugni: non gli pareva che già fosse morto!

Ma non si decideva ad entrare in città. Quella Porta è più stretta delle altre; e ci passano soltanto per andare al cimitero. Egli s’era soffermato, ma siccome la guardia daziaria, dall’apertura del suo casotto di legno, lo spiava per capire quel che voleva fare, entrò.

Alzando gli occhi a sinistra, vide l’Ospizio de’ Vecchi Impotenti: ce n’era uno, vestito di nero, con una suora ritta accanto; e stava seduto sul muraglione alto, con il dorso verso la strada. Allora pensò che anch’egli, con la raccomandazione di qualche signore, avrebbe potuto farsi prendere con gli altri lì dentro.

Strascicava una gamba; e, per quel giorno, non aveva trovato ancora né meno da spilluzzicare. Il vecchio stava lassù, tranquillo sotto una pergola; riparato dal vento e dall’acqua. Egli, invece, si sentiva male e non ne poteva più.

Ma a Modesta, che ora campicchiava con le trine e i ricami, pareva di far male a lasciarlo finire in quel modo; senza mai dirgli almeno una parola. Perciò andava quasi ad appostarlo dove indovinava ch’egli potesse passare. E siccome egli tirava di lungo, facendo finta di non averla guardata, ella aspettava un poco, tutta dritta; poi lo raggiungeva. Gli metteva nella mano, ch’egli non apriva subito, qualche lira; e seguitando a camminargli di fianco, perché egli non si voltava né meno allora, gli diceva:

– Perché, almeno, non ti converti a Dio? Anche il povero Niccolò è morto senza potersi confessare; e Giulio s’è ucciso. Forse, stanno male tutti e due; ora.

Bisogna pensare alle loro anime. Enrico faceva il viso cattivo; e si raggomitolava tutto; perch’ella non lo vedesse.

La donna proseguiva:

– Vai a farti aiutare dai canonici del Duomo. Fermali quando escono dal coro, la mattina. Tu non hai da compicciare niente in tutta la giornata!

Ella voleva che chiedesse l’elemosina ai canonici, perché a poco a poco gli venisse l’idea di entrare in chiesa. Ma Enrico ai preti non voleva ricorrere; e le rispondeva con la voce velata:

– Ora basta! Vattene!

Modesta, prima di lasciarlo, gli chiedeva:

– Hai bisogno che ti lavi qualche fazzoletto, almeno? Vieni in casa nostra, a farti ricucire i calzoni: li hai troppo rotti.

Ma egli tirava di lungo; ed ella tornava a casa con la stessa tristezza, sebbene un poco sdebitata di coscienza. Enrico non le dava ascolto, perché non voleva che le bambine, vedendolo, si

vergognassero di lui. Quando le scorgeva di lontano, spariva; magari entrando dentro un uscio, finché non fossero passate. E, se era dentro la bettola, diceva agli amici:

– Quelle sono due angeli. Ho riguardo soltanto dei loro occhi innocenti, che non mi vedano così.

Aveva imparato tutti i luoghi più deserti e più sporchi di Siena. Soltanto a quelli ci si avvicinava sicuro; come quando andava a riposarsi in Via del Sole, sotto le case di Salicotto, e doveva stare attento che i cenci tesi alle finestre, legati alle forcelle di legno e i fili di ferro, non gli sgocciolassero addosso. E, poi, c’era caso che lo colpissero su la testa con qualche scarpa vecchia, attraventata giù, o magari con le bucce di pomodoro quando le donne ripulivano le pentole e i piatti. Buttavano via anche pezzi di vestiti logori; e i suoi occhi ci si fermavano sopra per ore intere.

Alla fine, dopo avere atteso per un altro mese, i primi di febbraio lo presero all’Ospizio di Mendicità. Egli avrebbe voluto rifiutare, perché si vergognava; ma dovette cedere. Era sempre meglio di quando moriva di fame in qualche immondezzaio, e qualche cane randagio, con le costole sottili che tremolavano, andava a raspare nei mucchi della spazzatura e delle putrilagini; e trovava un osso; ed egli, allora, guardava il cane che mangiava, e gli veniva la saliva alla bocca.

Lo misero in un camerone, dove c’era un centinaio di letti e nessuno vuoto. Quando lo fecero lavare e gli dettero un vestito come avevano tutti gli altri, rossiccio e grosso, con un berretto filettato di turchino, si sentì avvilire. I primi giorni, non poteva fare a meno di guardare fisso quel che gli altri mangiavano; e a lui pareva che la sua parte non bastasse.

Siccome era dei meno vecchi, lo mandarono nell’orto a raccattare le potature restate sotto gli olivi. Poi, con due compagni, a portarle in un piazzale; dove erano le serre dei limoni.

Egli pensava sempre alle nipoti; e avrebbe voluto che le domeniche fossero andate a trovarlo. Ma esse non andavano ancora; perché non sapevano il suo desiderio; e passavano tutte le sere dinanzi all’Ospizio di Mendicità.

Una mattina, mentre raccattava le potature, disse a quelli con lui:

– Se io muoio presto, vi prego di dire alle mie due nipoti, che verranno a vedermi, che io m’ero messo a lavorare.

Gli altri alzarono gli occhi da terra; e lo guardarono, senza rispondergli.

Allora, egli si spiegò:

– Anch’io ho un briciolo di coscienza. E soltanto quelle bambine capiscono che è vero.

I più vecchi si misero ad ascoltarlo; e, per ascoltarlo, non lavoravano. Qualcuno cercò di sorridere e non ci riescì: smosse le labbra, come se ciancicasse.

Egli proseguì:

– Sono mesi e mesi che non mi parlano più.

Ed egli pensava, senza osare di dirlo: «Mi porterebbero una boccina di vino». Ma egli aveva patito troppo; e, una notte, preso da una nuova crisi di gotta, che gli aveva ormai infettato tutto il sangue, morì senza né meno accorgersene.

La mattina era freddo come il marmo del refettorio. Lola e Chiarina gli misero due mazzetti di fiori sul letto, uno a destra e uno a sinistra. C’era una sola candela; che, essendo di sego, si piegava per il calore della sua fiamma rossa come se avesse nello stoppino un poco di sangue morticcio.

Esse pregavano inginocchiate, con le mani congiunte vicino ai mazzetti di fiori; e, in mezzo a loro, il morto doventava sempre più buono. Il giorno dopo, spaccarono il salvadanaio di coccio e fecero comprare da Modesta tre croci eguali; per metterle al Laterino.

Comprensione complessiva

1) Riassumi il capitolo finale del romanzo.

Analisi di testo

2) Descrivi i personaggi che appaiono nel testo e fai emergere il dramma che vivono.

3) Quali sono le caratteristiche della scrittura di Tozzi? Attraverso opportuni esemplificazioni dalla prosa proposta fai risaltare la qualità della scrittura.

Inquadramento generale e approfondimenti

4) Inquadra il passo proposto all’interno della vicenda complessiva del romanzo o, in alternativa, presenta la produzione romanzesca di Tozzi.

5) Confronta i personaggi di Tozzi con quelli dei romanzi di Pirandello e di Svevo.

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