
Perché la vita venga spazzata via da un’onda nera di neve, ghiaccio e pietre che viaggia a trecento chilometri orari è un mistero. Dire “mistero” è qualcosa di diverso da dire “fatalità”. È qualcosa di diverso anche da dire “io ho la soluzione in tasca per evitare il tragico”.
Filippo aveva mandato una sua foto sorridente ai familiari: «Guardate dove sono». Era raggiante, Filippo. Bocca spalancata in un urlo di gioia davanti ai ghiacciai della Marmolada. Un paradiso. Erano le 13.00 di domenica pomeriggio. «Quando torni?», gli hanno chiesto. Non ha mai risposto. Alle 13.30 è venuto giù un ghiacciaio che era lì da centinaia di anni.
Dicono che sia piovuta un’onda di 400 metri di larghezza e 80 di altezza, che da quota 3.200 è arrivato a circa 1.800 metri. Un’onda “nera”, raccontano i testimoni, perché composta soprattutto da pietre, e poca neve. Ha travolto corpi ora difficilmente riconoscibili di gente che nel dì di festa s’era avventurata sulla regina delle Dolomiti alla ricerca di quella bellezza che del mistero è uno dei volti.
Il tremendo e il meraviglioso
Perché Filippo e non altri? Perché non Elisa? Perché Elisa con altri quattro escursionisti si è fermata ad aspettare un amico. E questa è stata la sua «fortuna. Altrimenti ora saremmo tutti là sotto…». Perché non Stefano? Perché Stefano e la compagna erano «poco più in alto rispetto al punto in cui ci sono state le vittime. C’è stato un rumore sordo, poi è venuto giù quel mare di ghiaccio. In questi casi è inutile scappare, puoi solo pregare che non venga dalla tua parte. Ci siamo abbracciati forte e siamo rimasti accucciati mentre la massa di ghiaccio ci passava davanti». «Siamo dei miracolati», dice Stefano.
Colpisce questo linguaggio (fortuna, miracolo) che fa riferimento a un “inspiegabile” che almeno è rispettoso di quel “tremendo e meraviglioso” mistero della montagna (che è poi il mistero della vita), come lo chiamava don Fabio Baroncini. Soprattutto colpisce la distanza tra le parole usate da sopravvissuti e soccorritori e le spiegazioni usate ieri da una folta pletora di commentatori travestiti da sbirri della morale, tutti subito pronti a spiegarci di chi è la colpa di una simile sventura. «Colpa dell’uomo», diceva ieri l’economista Jeffrey Sachs a Repubblica, in un’intervista confusa in cui si mischiava tutto, dal cambiamento climatico a Putin, alle armi in Ucraina.
La valanga del 1916
È sempre così. Quando si perde il senso del tragico, si balbetta confusi. “Assicuriamoci contro le catastrofi” diceva un titolo della Stampa. Ecco, sì, assicuriamoci, così poi questi cataclismi non capiteranno più. Assicuriamoci piuttosto contro questi presuntuosi sacerdoti dell’immanente sempre alla ricerca di un qualche capro espiatorio da additare e punire.
Durante la Grande guerra, sulla Marmolada si combattevano italiani e austriaci. Le pallottole non furono le sole a provocare morti. I due eserciti furono falcidiati da gigantesche valanghe. La più mortifera fu quella del 13 dicembre 1916 che travolse i trecento austriaci riparati nel campo base di “Gran Poz”. Le slavine proseguirono per tutto l’anno seguente, ed ogni volta era una catastrofe.
Perché la vita venga spazzata via da un’onda nera di neve, ghiaccio e pietre che viaggia a trecento chilometri orari era un mistero anche nel 1916. È per questo che la Marmolada, come tutte le montagne, è costellata di croci.
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