Mani pulite: «Non si può delegare ad una minoranza illuminata il cambio di una società»

Di Chiara Rizzo
18 Febbraio 2012
Intervista a Marco Damilano, giornalista dell'Espresso, autore di un recente libro in cui Carlo De Benedetti ha ammesso che il Pci fu solo sfiorato da Tangentopoli. «È un dato storico. Il segretario del Pds, Achille Occhetto non è mai stato coinvolto, tutti gli altri sì».

Venti anni fa, il 17 febbraio 1992, scattavano le manette ai polsi di Mario Chiesa, presidente del Pio albergo Trivulzio ed esponente del partito socialista, arrestato mentre intascava una tangente dell’imprenditore Luca Magni. Cinque settimane dopo, Chiesa confessò al pm Antonio Di Pietro di essere un tassello di un sistema di tangenti molto più complicato. Cominciava così Mani pulite, l’inchiesta che scompaginò un mondo politico, che portò a 45 suicidi, una pioggia di avvisi di garanzia, 3.175 richieste di rinvio a giudizio dal Pool (di cui 1.251 quelle accordate), a 1.254 condanne (di cui 847 per patteggiamenti o riti abbreviati). La caduta della Prima e la nascita della Seconda Repubblica. Eutanasia di un potere è il titolo del libro di Marco Damilano, giornalista de L’Espresso, una lunga inchiesta su Tangentopoli che tempi.it gli chiede di ripercorrere.

Vent’anni dopo, Chiesa è stato condannato, liberato, riarrestato per corruzione. Antonio Di Pietro è un leader politico. E proprio oggi la Corte dei conti segnala che la corruzione dilaga: che bilancio fa di Tangentopoli?
C’è un piano giudiziario e uno politico su cui ragionare. L’inchiesta giudiziaria Mani pulite fu largamente confermata nel suo impianto accusatorio. Altro avvenne però per tutte le altre inchieste che si sono innestate in seguito. Quindi non è stato un fallimento: un certo grado di corruzione è inevitabile, il problema è che in Italia quel grado è superiore e in questi vent’anni la qualità della corruzione è peggiorata, perché c’è una commistione più stretta tra potere economico e politico. C’è, poi, anche una riflessione politica da fare su Tangentopoli. Perché venti anni fa esistevano grandi partiti che nascevano da grandi ideali e passioni politiche, anche se poi l’impegno politico dopo decenni di potere era degenerato e logorato. La classe politica successiva invece è molto meno il prodotto di una idealità politica, e molto più composta da affaristi che si mettono in politica, di cui non si conoscono i programmi, ma di cui è ben nota la rapacità. Ma Mani pulite ha avuto anche il grande merito di effettuare una cesura di un sistema politico che era giunto alla paralisi, che non sapeva più riformarsi all’interno.

Eppure, di recente, sono state tante le ammissioni che quello non fu solo un periodo d’oro. Penso a Luciano Violante, ma anche ad altri che, su un altro piano, come Francesco Saverio Borrelli o Pier Camillo Davigo, si sono detti amareggiati per gli esiti quasi nulli di quella stagione. Come mai tali ammissioni solo adesso?
Le inchieste del pool, in particolare il processo Enimont, bene o male, sono arrivate a conclusione. Però è significativo che i magistrati protagonisti di quella stagione abbiano questa amarezza. Forse c’era l’ambizione, come disse Davigo, di rivoltar l’Italia come un calzino. Ma questa è stata senza dubbio un’ambizione eccessiva, perché non spetta ai magistrati, ma alla società. Il punto è questo: non si può delegare ad una minoranza illuminata, che siano giudici o politici, il cambiamento di una società. E questo lo si fa con il rispetto delle regole e con una nuova cultura. Ma negli ultimi vent’anni mi pare che la cultura è stata opposta, ed è diventato da stimare quello che non rispetta le regole.

Un’altra ammissione importante è quella che Carlo De Benedetti fa proprio in un’intervista contenuta nel suo libro. «Il Pci è stato certamente protetto da Mani pulite». 
Il ragionamento di De Benedetti è che il pool non era antipolitico, e in particolare Borrelli e Davigo non avevano questo scopo; mentre Di Pietro forse un’ambizione politica l’aveva già, e voleva anzi porsi come “capo” di questa nuova stagione. Certo: è un dato di fatto che nelle indagini, nel caso dei partiti di governo, ad un certo punto, si salì di livello e si saltò ai segretari di partito. Nel caso del Pci questo non è accaduto e nemmeno per la maxitangente Enimont: anche se è stato dimostrato che le valigette sono arrivate a Botteghe Oscure. È un dato storico. Il segretario del Pds, Achille Occhetto non è mai stato coinvolto, tutti gli altri sì. Il secondo dato di fatto che mi viene da osservare è che nonostante questo – che certamente non è di poco conto – “Mani pulite” fece cadere il mito della diversità morale del Pci. Con il caso del compagno G., l’arresto del tesoriere del Pds Maurizio Stefanini e la decapitazione della classe dirigente milanese di quel partito. Questo credo che è anche uno dei motivi per cui nel ’94 il Pds non vinse.

Si ragiona molto in questi giorni su Mani pulite, dal punto di vista giudiziario o politico. Ma non si fa mai un bilancio di quello che è accaduto per i media. Vuole provarci lei? Quali furono le responsabilità della stampa rispetto all’inchiesta, la piazza e la politica?
Quella per i media è stata una grande stagione di libertà. Mani pulite non avrebbe avuto nessuna chance di riuscire nelle inchieste, senza il sommovimento nell’opinione pubblica di indignazione.

Non è che i media però cavalcarono proprio questo, il sentimento di indignazione?
I media cavalcarono il sentimento perché questo c’era già, non lo crearono. A parte il successo di Samarcanda e di Michele Santoro, all’epoca ci fu anche il grande successo di trasmissioni come quella di Gianfranco Funari su Canale 5, o il Tg4 di Emilio Fede e Paolo Brosio, o la campagna nazional-popolare per il pool apparsa su Tv sorrisi e canzoni. A riprova che gli ascoltatori chiedevano questo: si può molto discutere sui poteri forti dietro le campagne mediatiche che sostennero il pool, ma la verità è che tutta la società si era stancata della classe politica. È per questo che la stampa fu più libera che mai in quella stagione. La Fiat, con Cesare Romiti, è stata coinvolta nelle indagini ai suoi massimi livelli, eppure il Corriere e La Stampa furono i più pronti sostenitori del pool. Così come avvenne che Carlo De Benedetti fu coinvolto nelle indagini, ma Repubblica sosteneva il pool.

Però Romiti e De Benedetti si presentarono privatamente con un memoriale davanti al pool e non ricevettero mai avvisi di garanzia, proprio mentre i loro giornali sostenevano fortemente il pool. Non è che questo sostegno era un po’ interessato?
No, penso il contrario. Un solo imprenditore non è stato toccato dalle indagini, ed è Silvio Berlusconi. Eppure le sue testate erano quelle più tifose e partigiane per le inchieste. E in quei due anni mai Berlusconi fu interrogato. Il nesso malizioso va cercato da tutt’altra parte, in casa Fininvest.

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