La “macelleria messicana” di Amlo che la sinistra non vuole vedere

Di Paolo Manzo
07 Gennaio 2022
Il Messico ha registrato 105.804 omicidi in tre anni, il 120 per cento in più dell'era Calderón. Il presidente di sinistra López Obrador voleva sconfiggere i cartelli della droga con gli «abbracci»: ecco i risultati
Gruppi armati di autodifesa in Messico

Gruppi armati di autodifesa in Messico

Avete letto di recente che mai come durante la presidenza del sinistrorso Andrés Manuel López Obrador (Amlo), il Messico ha avuto così tanti omicidi? No, vero? Eppure, dal primo dicembre 2018 al 30 novembre di quest’anno, i primi tre anni al potere di Amlo, come lo chiamano tutti, il Messico ha registrato 105.804 omicidi. Non c’è un periodo nella storia recente – nemmeno i peggiori anni di Felipe Calderón che condusse la cosiddetta “guerra alla droga” tra 2006 e 2012 – così sanguinoso e violento.

La “macelleria messicana” ignorata

La “macelleria messicana”, termine abusato dai giornali della sinistra italica e globalista quando a governare erano gli altri, oggi non ha più appeal. Un esempio, l’ennesimo semmai ce ne fosse bisogno, della battaglia culturale stravinta dalla sinistra. «L’attuale governo messicano, guidato da López Obrador – scriveva tre giorni fa El País, non certo tacciabile di “astio ideologico” con Amlo – guarda per il momento dall’altra parte, indicando piccole conquiste, riduzioni occasionali o impercettibili cambiamenti d’inerzia». La settimana scorsa il presidente messicano ha addirittura celebrato il fatto che «appena 68 omicidi» erano «stati registrati in un giorno». Patetico.

Quali però le cause dell’incremento del 120% rispetto alle 41.375 vittime dei peggiori trienni dell’era Calderón, o dell’80% rispetto ai 63.877 morti di quella del suo predecessore, Enrique Peña Nieto (2012-2018), due di cui Amlo, prima di conquistare il potere, denunciava ogni giorno gli errori «metodologici e strutturali» e gli orrori?

Sconfiggere i cartelli con gli «abbracci»

Per capire i motivi del disastro cominciamo col chiarire che López Obrador era stato chiaro sin dal suo primo giorno di presidenza, in quell’oramai lontano primo di dicembre del 2018: fare la pace coi narcos, offrire l’amnistia in cambio dell’addio alle armi, «più abbracci meno proiettili» il suo slogan, il tutto con i militari dalla sua. Già perché Amlo, che prima criticava la «militarizzazione della sicurezza» dei predecessori, non appena insediatosi ha letteralmente militarizzato il paese del tequila, ponendo in essere una mobilitazione record di truppe, con il dispiegamento di oltre 100 mila effettivi della sua Guardia nazionale. Una sorta di gendarmeria con funzioni di polizia nazionale nata per sua espressa volontà nel 2019. Più militari nelle strade e, come sempre a queste latitudini, più denunce di violazioni dei diritti umani.

Più abbracci, più soldati malamente addestrati, polizia pagata una miseria, corruzione ai massimi livelli e, soprattutto, un cambiamento di fondo, mentale ancor prima che strutturale. Ovvero l’idea fissa di Amlo che la crudeltà dei cartelli narcos (che per contendersi il mercato lucrativo della droga decapitano a ritmi 20 volte superiori a quelli dell’Isis) si possa risolvere intervenendo sulle cause sociali della violenza. Il problema è che da quando lui è presidente, gli omicidi in Messico sono quasi raddoppiati. Inoltre, l’isolamento forzato dalla pandemia non ha fatto calare gli omicidi come quasi ovunque nel mondo ma la media rimane di oltre 100 esecuzioni al giorno.

Il Messico è ormai un narcostato

La violenza che attanaglia oggi il Messico è ovviamente dovuta al crescente controllo territoriale dei narcos, soprattutto i cartelli di Sinaloa e Jalisco Nueva Generación, ed oggi il paese del tequila è persino più narcostato della Colombia degli anni ’80, quando Pablo Escobar, pur facendosi eleggere senatore, non riuscì mai a coronare il suo sogno di arrivare alla presidenza. Più narcostato perché, come si evince dagli stralci non secretati del processo del boss El Chapo a New York, i tre ultimi presidenti messicani, Calderón, Peña Nieto e l’attuale, Amlo, sono stati accusati da testimoni come Reynaldo Zambada, alias El Rey (il fratello del Mayo, la mente del cartello di Sinaloa) di avere ricevuto milioni di dollari dai narcos in cambio di “compiacenza”.

Accuse identiche erano state rivolte in Colombia all’ex presidente Ernesto Samper, la cui campagna elettorale fu finanziata dal cartello di Cali e che per questo ancora oggi non può entrare negli Usa, ma almeno là una pantomima di processo si celebrò. In Messico, invece, non solo di processi neanche l’ombra ma da quando si è insediato, Amlo non fa che offrire esempi di come stia “abbracciando” le organizzazioni narcos del suo paese. Lo si è visto a Culiacán, la capitale dello stato di Sinaloa, a fine ottobre 2019, quando era stato arrestato Oviedo Guzmán e il presidente in persona intervenne subito ordinando alle truppe di liberare uno dei maggiori narcotrafficanti al mondo, nonché figlio prediletto del Chapo.

L’esponente delle forze dell’ordine che aveva arrestato Ovidio, una settimana dopo fu freddato da una gragnuola di colpi di fronte a un centro commerciale ma né la sua morte, né il lutto dei suoi famigliari è mai stata presa in considerazione da López Obrador che, invece, un mese dopo si riunì a Sinaloa con la madre del Chapo, stringendole sorridente la mano. Quello di Amlo in materia di sicurezza è insomma un «fallimento clamoroso» a detta di tutti gli analisti, con cause e responsabilità, ideologiche e logistiche, ben definite. Peccato solo che i media liberal abbiano scelto il silenzio tombale sulla “macelleria messicana” firmata López Obrador.

Foto Ansa

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