
«Ma perché? C’è un giudizio?». Leggere Dante a scuola

Articolo tratto dal numero di gennaio 2021 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Leggere Dante a scuola è in primo luogo un problema di posizione. Quando si è acerbi, e perciò presuntuosi, ci si mette davanti agli studenti, vicino al pellegrino toscano e ai suoi compagni di viaggio, e si fa come fanno le guide giapponesi: si alza la bandierina dei propri titoli accademici, ci si fa forti di quello che si crede di sapere e si parla, si spiega, si commenta; salvo girarsi, a tre quarti della predica, guardarsi indietro e accorgersi che non c’è più nessuno, tranne i pigri o i dormienti. Peggio di così, fanno i mascalzoni: i guitti, gli attori che intrattengono il pubblico con i loro trucchi da illusionista, incantesimi verbali rubati qua e là e spacciati per farina del loro sacco; e intanto Dante scompare, se ne va per la sua strada e nessuno lo vede né lo segue più, ma tutti sono convinti di averlo conosciuto e, magari, anche capito.
Ripeness is all, maturità è tutto, ricordava alla fine Pavese, e maturità esige di stare in fondo, a chiudere la fila: i protagonisti del poema là davanti, poi gli studenti e l’umile insegnante dietro a tutti; a spingere, indicare, confortare, raccogliere gli affaticati e i dispersi. Le tante sigarette fumate nella vita e il tempo che fa scricchiolare il cordame che regge la carcassa mi sono stati di grande aiuto in questo; ma più ancora la consapevolezza che è necessario diminuirsi perché qualcosa possa crescere, dal momento che molti fatti confermano che se il seme non muore non porta frutto. Pare un tirarsi indietro, ma non lo è. Al contrario è un tirarsi, o lasciarsi tirare, dentro, nel mezzo del movimento eversore del Poema della vita.
È persino antipatico
L’anno appena nato sarà zeppo di celebrazioni dantesche, e meno male. A condizione di non addomesticare il Nostro o usarlo come pretesto per promuovere sé e i propri libri. Perché Dante, a conoscerlo, è duro, aspro, sgarbato e persino antipatico. Non esiste luogo più idoneo a rendersene conto della quotidiana trincea scolastica, a patto che non si voglia lavorare per trasformarla in un pubblico dormitorio.
Leggere la Commedia è una lotta, «una guerra sì del cammino e sì de la pietate»: lo sa e lo dice più volte lo stesso fiorentino nel corso del suo racconto. L’esempio forse più perentorio si trova all’inizio del Paradiso, quando il poeta invita noi che leggiamo e che, grazie a chi sta dietro, lo abbiamo seguito fino a lì a tornarcene a casa:
«O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti».
Come e più del suo Ulisse, che con la sua piccola orazione convince i pochi amici che gli sono rimasti fedeli a seguirlo nel grande Oceano, Dante percorre un mare «che mai non si corse», alla cui navigazione sono preparati quei «pochi» che drizzarono il collo «per tempo al pan de li angeli», i quali appunto si nutrono della Presenza di Dio e ne godono, in una conoscenza amorosa intera e infinita.
In guerra o al sicuro?
In un tempo di «colonizzazioni ideologiche (…) e questo è terribile» (papa Francesco), «l’epoca del peccato contro Dio Creatore!» (papa Benedetto XVI), Dante osa portarci fino alla radice ultima da cui scaturisce tutto ciò che esiste, la Gloria di Dio, il Dio che dà «a tutti la vita e il respiro ad ogni cosa», e pretende di farlo adesso, prima che Essa si manifesti in tutta la evidenza indiscutibile alla fine dei tempi, convinto come è che senza questa esperienza la vita sia un inferno, «un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla» (Shakespeare).

Che si fa, allora? Diciamo che questa non è poesia, ma teologia? Ci ripariamo dietro lo scudo della filologia, come facevano con noi in Università cattolica? Diciamo che sono simboli o che si tratta di un sogno da interpretare secondo i canoni della moderna psicanalisi, come facevano con me al liceo? È duro leggere Dante perché è duro esporsi al fuoco di fila del senso letterale del suo dire e lasciare che agisca in tutta la densità di realtà che rivela. È una sorta di aut aut: anche noi, come lui prima di noi, apparecchiati «a sostener la guerra (…) che ritrarrà la mente che non erra» oppure al sicuro, rifugiandoci nelle opinioni di cui siamo esperti frequentatori, a parlare di cultura, di letteratura, di Italia e di italiani, della scuola e della società eccetera eccetera.
Lasciamo che Dio continui ad essere l’Incomprensibile, il Grande Inaccessibile, lasciamo che se ne stia buono, ben lontano da noi e dalle nostre faccende. Facciamo finta di non vederlo questo «possente, con segno di vittoria coronato», una croce, la croce, che entra nel limbo della nostra sospensione quotidiana, dove «sanza speme, vivemo in desio», o anche senza né desio né speme, e bramare di tirarci fuori per portarci nella Vita. E se ancora passa in mezzo al nostro mondo, come Dante vide in cima al monte del Purgatorio «un carro – quello della Chiesa –, in su due rote, trïunfale, ch’al collo d’un grifon tirato venne», parliamone come d’una faccenda politica, di progressisti e conservatori, un’opera assistenziale meritoria o una banda di delinquenti, una faccenda del passato, un’antica istituzione caduta in disgrazia, un’azienda decotta da smembrare e svendere a pezzi al miglior offerente.
Ogni sbattere di palpebra
A meno che non accada, come all’ingenuità sbigottita degli alunni di una terza liceo, di accogliere con un fremito, proprio all’inizio del loro apprendistato dantesco, la vista delle anime che «vanno a vicenda ciascuna al giudizio», tanto da esclamare: «Ma, perché? C’è un giudizio?». Certo che c’è un giudizio, altrimenti libertà e ragione, parole e opere, pensieri e omissioni non varrebbero nulla, fantocci senza consistenza. Saremmo niente noi e sarebbe niente quello che amiamo e quello che soffriamo. «E in cosa consiste, questo giudizio?». Risponde il Grande intruso: «Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce».
«E quando sarà questo giudizio?».
Come, quando sarà? Il giudizio è adesso, è ora, proprio mentre leggiamo, e poi ad ogni sbattere di palpebra, ad ogni accenno di respiro.
Cosa sarebbe, altrimenti, vivere?
***

Quanto volgere d’anni
Quanto volgere d’anni
per vivere,
e poi dire,
scrivere!
Quanto tempo di ore e minuti
per leggere,
rifare la strada
e dare la propria voce
alla vita,
prestarla al canto
che ciascuno è chiamato a cantare!
E quanto spazio di tempo
per guardare,
vedere,
capire,
abbreviare la parola
per regalarla!
Di che si narra qui dentro?
Di quale storia,
in questa rimanenza di spazio e di tempo,
tra queste scorie precarie
di tane incerte, deserte?
Anche noi,
in mezzo a questa vita
che nullo omo vivente può scampare.
Di cosa si parla?
Si dice di chi?
Di che si racconta?
Di quando?
Di dove?
Se una storia c’è ancora,
se non è tutto confusione,
frammenti sparsi, strappati, dispersi
sopra un tavolo bianco.
Quando uno si perde
tutto è come sfumato,
sfinito,
consumato
nel buio.
Nello scuro
non c’è nessuno;
soltanto cani.
Nel buco
girano lupi affamati,
leoni superbi e minacciosi,
leopardi agili e veloci.
D’improvviso,
dal magma,
dal niente,
dal nonsisadove
nonsisacosa
nonsisaquando,
che tutto sembra bruciato via
incarbonito
piante uomini e animali,
vien fuori uno:
uno vien su.
Miserere di me!
S’ha da gridare.
Miserere di me!
Chiunque tu sia,
uomo ombra qualcosa.
Uno che è stato poeta,
il più grande
si dice,
mantovano e latino.
Virgilio
vien su.
Tirato fuori dal buco anche lui,
da una donna,
beata e bella,
che gli occhi le lucevano
come la stella.
Mandata giù da Lucia,
soccorso dei ciechi,
di tutti i non vedenti,
chiamata anche lei
da Maria
che soccorre i cadenti,
sostiene i pendenti,
rialza i morenti,
quando
non hanno più vino
non hanno più fiato
non hanno più vita.
Lei porta il padrone della vigna,
manda il Signore della vite e della vita,
l’ospite che abita l’istante.
Bene trovato
nell’inferno del mondo,
storia di salvezza
che si prende in groppa il caos
e lo svolge in strada,
via
verità
vita
che chiama che urge che ama.
Ce ne andremo via tristi?
Diremo che il bene è troppo per noi,
presuntuosamente asserragliati
nella gabbia minima
delle consuetudini?
Non siamo Enea.
Non siamo Paolo.
Siamo noi.
Pocaroba,
pocacosa,
tanto ricchi da aver paura!
Terribile il bene,
terribile l’amore,
più ancora del male,
del buio,
del buco.
Perché esiti? Perché ti fermi?
Perché temi
e tremi,
se tanto amore ti ama,
se tanta promessa ti promette?
Cedi infine alla Grazia,
madre amorevole della ragione!
Mauro Grimoldi
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