
Ma davvero Veronesi merita una laurea per aver «umanizzato la medicina»?
Ieri la cerimonia per la quattordicesima laurea honoris causa conferita a Umberto Veronesi. Questa volta il premio ha qualcosa di singolare. Viene da uno dei templi della cultura anglosassone: il King’s College di Londra che, per altro, ha annoverato per la prima volta un italiano fra i suoi candidati. Francesco Agnoli, professore, scrittore e collaboratore del Foglio, spiega quale sia l’anomalia, «direi grottesca dal punto di vista storico: l’Italia che fino alla fine del Settecento aveva il primato della medicina mondiale ora l’ha perso. Lasciandolo in mano al materialismo ateo».
Non solo, Agnoli vede anche due mondi apparentemente lontani incontrarsi. «Il materialismo marxista da cui viene Veronesi sta convergendo sempre più con quello materialista liberal anglosassone, all’avanguardia nella sperimentazione sull’uomo. Non è un caso se l’aborto è stato legalizzato prima nella Russia comunista e, di seguito, nell’Inghilterra progressista». Due concezioni spesso considerate antitetiche. «Il fulcro da cui nascono è lo stesso, solo che viene declinato in modi differenti. Per entrambe le ideologie il primato della storia è da attribuirsi alla materia e all’economia. Sono due mondi, quello della Russia comunista e dell’Inghilterra liberal, in cui la Chiesa, e quindi la religiosità, è stata combattuta. Ma un uomo privato del suo anelito trascendentale diventa necessariamente schiavo della materia. Come dimostrano sia la Russia di Stalin sia il materialismo moderno».
Tra le motivazioni della laurea conferita al professor Veronesi appare il suo contributo «all’umanizzazione della medicina». Si dice che Veronesi, soprattutto per quanto riguarda l’approccio al tumore del seno, sia riuscito a passare dal massimo tollerabile al mimo efficace. «Alcuni dicono abbia dei meriti in questo campo. Non sono abbastanza esperto per confermarli o smentirli. Mi permetto solo di sollevare dei dubbi: mi sembra strano che si possa contribuire a rendere la medicina più umana, mentre ci si batte per la clonazione riproduttiva. Faccio, poi, fatica a capire dove stia l’umanesimo in un affermazione come quella che si trova nel libro La libertà della vita, in cui Veronesi dialoga con Giulio Giorello: «Dopo aver generato i doverosi figli – scrive il medico – e averli allevati, il suo compito è finito, occupa spazio destinato ad altri… Bisognerebbe che le persone a cinquanta o sessant’anni sparissero…».
L’oncologo ha commentato la notizia del conferimento onorifico, parlando dei suoi studi come dell’allargamento di orizzonte «dalla sola quantità della vita, alla qualità di vita. Vivere senza qualità è vivere a metà». Se è necessario che la medicina tenga conto innanzitutto della dignità della persona, che non si accanisca sul corpo e non si pensi onnipotente, non è però ambiguo parlare di “attenzione alla qualità”, soprattutto pensando a come oggi questi termini sono spesso usati? «Certamente è rischioso. Veronesi non ha mai parlato della qualità della vita come lotta per la cura e il sostegno alla persona fragile. D’altra parte da uno che nega l’esistenza del mistero nella realtà, riducendola solo a materia, è difficile aspettarsi un’altra visione della malattia. Per questa ragione ha attaccato i cattolici sbagliando, bollandoli come masochisti: i cristiani non esaltano il dolore ma guardano ad esso e al male come una condizione, da combattere se si può, e al malato come una persona da accudire fino alla fine (non a caso le cure palliative nascono da una dottoressa cristiana: Cicely Saunders). Per Veronesi, invece, la persona che sta male non vale più come quando era sana. Non solo, per ogni uomo che ha la percezione del mistero, la realtà, anche la più dura, ha un senso da ricercare. Per chi, invece, pensa che la realtà non abbia un ordine, il limite diventa inevitabilmente insopportabile: non riesce ad accettare gli eventi per come si presenta non il sedicente ateo, ma il razionalista puro».
Non solo, l’oncologo si contraddice quando afferma che non gli interessa «la quantità, ma la qualità della vita». Nel suo ultimo libro, infatti, Veronesi scrive: «Si potrebbe eliminare il gene p66: se lo si elimina quando un uomo è ancora embrione quella persona potrebbe vivere sino a 120 anni». Una visione prometeica. «Veronesi è il principale rappresentante italiano dell’ultima utopia rimasta», conclude Agnoli, «oggi non ci aspettiamo più la redenzione di massa da un dittatore. Ma ognuno nel suo piccolo cerca nella medicina un tentativo finale di perfezione, quella fisica. Nemmeno più dell’anima».
Una profezia, quella dell’oncologo, che si ritrova anche nel suo libro Il diritto di morire e che allude ad una immortalità sì, ma dei geni, del Dna, non delle persone, della loro unicità, della loro natura di individui unici ed irripetibili, figli di Dio: «Il motore di questa rigenerazione – scrive – è il Dna umano che, riproducendosi in ciascun uomo, propaga incessantemente la vita… potremmo quasi dire che la trasmissione del nostro Dna alle generazioni successive potrebbe essere letta come la versione moderna dell’immortalità, in quanto il Dna è in effetti immortale. Inoltre, trasferendosi da un corpo all’altro, riassume anche il concetto antico di reincarnazione».
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