Accade in Canada. Quando fu portato dai medici di Vancouver, Ben era in condizioni critiche, presentava numerose ferite sul corpo, l’orecchio era stato permanentemente deturpato e danneggiato, la spina dorsale schiacciata. Ricoverato d’urgenza, i dottori si sono presi cura di lui, riuscendo a stabilizzarlo. Ma la sua salute non migliorava.
IMMOBILE, DEPRESSO, BEN SI LASCIAVA MORIRE
Trasferito in una clinica la situazione sembrava senza via d’uscita: Ben avrebbe dovuto assumere antibiotici e antidolorifici per combattere infezioni e dolore per il resto della sua vita, la deformazione della colonna vertebrale non gli avrebbe consentito alcuna mobilità, non sarebbe mai stato autosufficiente. Ben era caduto in uno stato di depressione, non voleva più mangiare, rifiutava il cibo, si stava lasciando morire. Per i medici la soluzione meno dolorosa era una sola: eutanasia.
SANDY SI RIBELLA ALL’EUTANASIA
Ma Sandy, il tecnico che lo aveva curato durante il ricovero e se ne era perdutamente innamorata, non poteva accettarlo. Decise di sottrarlo alla sentenza di morte, lo portò a casa sua, gli diede assistenza h24, conforto e una famiglia. È lì che vive Ben dal 2016 e che, a dispetto delle previsioni e del suo aspetto caratterizzato da una smorfia lugubre e perennemente corrucciata a causa della pelle in eccesso, vive felice, come il più felice del mondo. Riceve tanto amore, si sente al sicuro, e ha quasi 500 mila follower su Instagram.
LA MORALINA DELLA FAVOLA
Ben, o BenBen, come è noto sui social grazie alla copertura mediatica della sua storia, raccontata in questi termini anche in Italia per sensibilizzare le persone a non abbandonare a soluzioni facili come l’eutanasia e accogliere con cura e amore chi ha bisogni speciali, è un gatto.
Si obietterà: essendo un gatto BenBen non poteva scegliere se morire o autodeterminarsi. Perché, i bambini, i pazienti psichiatrici e malati di Alzheimer fatti fuori con un atto “compassionevole e misericordioso”, sì?