L’incubo di The Circle. Un mondo “trasparente” dove tutti mettono tutto in Rete. E ogni segreto è una bugia

Di Mattia Ferraresi
21 Ottobre 2013
Nel suo nuovo romanzo Dave Eggers immagina un futuro "alla Google". La condivisione social è la regola suprema e la vita è sempre in streaming. È la fine dell'umanità. Ed è già cominciata

Google è stato incoronato da Great place to work la «best multinational workplace».

The Circle racconta la storia inverosimile di un’azienda inverosimile in un mondo inverosimile. È perciò inverosimile che l’autore, Dave Eggers, usi lo strumento dell’allegoria per portare il lettore in un campus tecnologico che somiglia terribilmente a quello di Google, è guidato da una trinità di nerd identica a quella di Google, ospita impiegati che sono in realtà adepti di un culto tecnologista e utopico che ricorda per molti aspetti quello che domina Google. Eggers lavora sulle estreme conseguenze – non su quelle immediate – s’aggira nel campo delle iperboli, dove le promesse sorridenti di un’umanità trasfigurata dalla tecnologia finiscono per partorire una società troppo esplicitamente dispotica per essere verosimile. Una società dove il segreto è una bugia e la privacy un furto.

Questo per scardinare a priori le obiezioni del tipo “la realtà non va davvero così”: nel racconto ogni dettaglio è esagerato e ogni promessa hi tech è vanità e un inseguire il vento, cosa che si scopre alla prima riga, quella in cui la protagonista, Mae Holland, vede il campus di questa potentissima azienda della Silicon Valley e pensa: «È il paradiso». Per l’autore è chiaramente un inferno. Tutto è fastidiosamente artefatto, dal cibo biologico del ristorante alla segretaria stucchevole che parla come un replicante e non coglie l’ironia, fino al ritratto caricaturale dei tre fondatori disposti a piramide come in un’oleografia paramassonica.

Molto prima che il grande progetto illuminato di The Circle viri verso un terrore senza ghigliottine il lettore è portato a simpatizzare con gli outsider della galassia tecnologica, i dissidenti, rappresentati come i normali che si nutrono di realtà in un mondo di sciroccati narcisisti che esistono nella misura in cui qualcun altro ritwitta i loro arguti giochi di parole o schiaccia like sulle foto al mare (Zing e Smile sono gli strumenti di Circle, ma il concetto è lo stesso).

Alle feste di the Circle non ci si diverte davvero. Non prima che un tizio conosciuto nella penombra cavi fuori un paio di bottiglie di vino bianco in una cascatella artificiale all’insaputa degli onniscienti organizzatori della felicità globale. «Fuori dalle mura di the Circle tutto era rumore e fatica, fallimento e feccia. Ma qui tutto era stato perfezionato. Le persone migliori hanno creato i sistemi migliori e i sistemi migliori hanno portato fondi, fondi illimitati che hanno reso possibile questo, il miglior posto in cui lavorare. Era naturale che fosse così, pensò Mae. Chi se non gli utopisti potevano creare l’utopia?».

Chiunque abbia fatto un giro nel campus di Google sa che è un luna park dove qualunque desiderio si avvera in nome della massimizzazione della produttività – taylorismo dal volto umano – e, a un livello più profondo, in nome del consolidamento dell’obiettivo comune. Ogni pezzetto di felicità che Google regala ai dipendenti ritorna all’azienda in forma di lealtà e dedizione, è un mantice per il sacro fuoco che brucia sotto quelle t-shirt perfettamente stirate. Ma chiunque sia stato nel campus di Google sa anche che quasi tutti, una volta finito il lavoro, tornano a San Francisco, nella città vera, sa che l’ossessione, almeno quella proclamata, non è quella di creare una bolla di benessere e proficua felicità fuori dal mondo ma di trasformare il mondo in un luogo più autentico. La “mission” è quella di redimere la realtà imperfetta, non di crearne una parallela e sterilizzata.

Come la maggior parte dei racconti distopici, anche quello a sfondo tecnologico di Eggers deve prendere un esempio estremo di manipolazione per portare il contrasto con la realtà al parossismo. Evitare di prendere alla lettera lo schema del romanzo è condizione necessaria per apprezzare i temi che introduce. Del resto, l’esteriorità del Grande fratello di Orwell potrebbe essere scartata con un semplice “ma il potere è molto più subdolo di così, su”, a patto di perdere però anche la vicenda antropologica che è centrale nel discorso orwelliano. Analogamente, l’inverosimile the Circle di Eggers descrive dinamiche umane più che verosimili.

“Humans Work Here”. È un cartello ricorrente sulle pareti di questa compagnia che ha un algoritmo per qualunque cosa, e se non ce l’ha lo sta creando. Gli umani, non le macchine, lavorano nella compagnia che ha come obiettivo niente meno che il radicale miglioramento della condizione umana. Nell’idea del perfezionamento dell’uomo c’è la duplice premessa che è alla base dell’ideologia tecnologista della Silicon Valley: l’uomo è perfetto e imperfetto allo stesso tempo. I limiti – della conoscenza, della vita, dell’energia, della memoria – sono condizionamenti temporanei, non ineluttabili dati di fatto.

Costruire un sé potenziato
Presso gli ambienti ideologicamente più espliciti, dove le dottrine del transumanesimo sono moneta corrente e l’immortalità è solo questione di tempo, queste sono ovvietà da decenni. Ma vale la pena ricordare che il capo degli ingegneri di Google, Ray Kurzweil, è il gran sacerdote del culto della “singularity”, il punto dello sviluppo tecnologico in cui l’uomo trascenderà se stesso per arrivare non a un’entità divina ma a un sé potenziato. I visionari non stanno nelle roulotte nel deserto del Nevada ad aspettare gli alieni, sono nella Silicon Valley a fare soldi con i prodotti più diffusi e capillari del pianeta.

Mae, inizialmente riluttante e inadeguata a quel mondo, si inginocchia davanti all’altare di the Circle perché i suoi dei promettono di restituirle il suo io potenziato, lucente e con milioni di feedback. Promettono una trasfigurazione radicale dell’umano. E nel mondo dell’iperconnettività e della “condivisione” di qualunque cosa l’umano non è una faccenda individuale, ma è parametro relazionale.

Dostoevskij si è messo a piangere quando, dopo anni di lavori forzati in Siberia, ha letto alcune lezioni di Hegel in cui il filosofo spiegava che quella steppa remota era un luogo estraneo all’azione razionale dello spirito. La Siberia era ai margini della storia, dunque fuori dalla dialettica, dalla dimensione del significato, fuori da tutto. Allo stesso modo, l’esperienza nel mondo di Circle ha un valore soltanto se è documentata, condivisa, commentata, twittata, instagrammata, riversata nella “cloud” che funge da intelletto possibile dell’umanità intera. Ed è tutto materiale offerto volontariamente, senza coercizione totalitaria o intimidazione da stato di polizia: «Nessuno ti sta obbligando a fare queste cose. Ti sei legata volontariamente a questi lacci. E stai volontariamente diventando socialmente autistica», dice l’ex ragazzo di Mae, che la comunità virtuale giudica simpaticamente un primate. Le gite solitarie in kayak di Mae, che se ne va per la baia di San Francisco vista soltanto dai leoni marini, non hanno senso se non sono condivise. Tanto che – passaggio decisivo e perfettamente logico – a un certo punto dell’evoluzione di Circle la condivisione diventa obbligatoria. La privacy è un furto, egoismo intollerabile che priva l’altro di un’esperienza che potrebbe arricchire, e la riservatezza un reato.

Le minuscole telecamere sviluppate dagli ingegneri di Circle si diffondono a una velocità inimmaginabile, il mondo diventa un panottico in cui si possono – anzi, si devono – scrutare ed esporre i crimini, il malaffare, la depravazione, mentre tutto il resto, ciò che normalmente si fa in privato ma non contiene un profilo criminale, viene esposto per essere “normalizzato”. Se tutti sanno tutto nessuno si scandalizzerà più di niente. Che è come dire che prima di cogliere la mela Adamo ed Eva andavano in giro nudi senza vergognarsi. Applicare questi ragionamenti alla politica conduce facilmente dalle parti degli incontri in streaming di Grillo e Casaleggio, oppure sul lato della trasparenza assoluta nello stile di Julian Assange.

Il mondo condanna gli affari pubblici a porte chiuse perché chi li fa ha certamente qualcosa da nascondere; si moltiplicano i politici che decidono di procedere alla “clarification”, la trasformazione definitiva in uomini di vetro con telecamera e microfono perennemente attaccati al corpo. Tutto viene registrato. Ogni incontro, ogni riunione, ogni telefonata, ogni messaggio. Chi si rifiuta di incontrare un politico trasparente è immediatamente travolto dal sospetto. Un’eventualità del genere non piacerebbe – ovviamente – nemmeno a Grillo, ad Assange, a Edward Snowden né a Larry Page e Sergei Brin. I capi di Google ogni venerdì fanno una riunione-liturgia con tutti i dipendenti, ed è rigorosamente off the record, altro che trasparenza. Non piacerebbe a nessuno per via della vecchia faccenda del peccato originale: tutti hanno qualcosa da nascondere, qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa che non sono disposti a concedere, hanno segreti da difendere, limiti da coprire, armi da celare per essere più performanti nella bellum omnium contra omnes. Ma nel processo di eliminazione del peccato originale, espresso nel libro di Eggers a volte con forme grossolane, si perde anche la virtù.

Non è certo un racconto naif
Nella società trasparente di Circle non si può essere buoni. I princìpi paternalisti che dominano il monopolio tecnologico rendono doverosa ogni azione socialmente buona e neutra ogni azione che non ha un impatto sociale. Tutto il resto è discriminazione, sopruso, crimine, hate speech da punire con nuove e fantasiose aggravanti. Il passaggio all’indifferenza morale, all’obbligo di fare il bene, è un elemento ricorrente nei racconti distopici, e nel caso di The Circle è potenziato dalle subdole capacità coercitive di un mondo di relazioni social che agiscono come gocce che scavano la roccia. Non c’è bisogno della polizia del pensiero, perché una società ben addestrata ad applicare certi criteri di ricerca è già una polizia, e non ha bisogno di pistole e manganelli. Basta esporre il peccato altrui per emettere una sentenza davanti alla giuria della collettività in streaming.

Eggers esprime tutto questo attraverso la lente dell’iperbole, esagera le dinamiche per renderle visibili. Le cadute di stile e le scelte infelici non mancano, ma è naif giudicarlo un racconto naif.

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