
Libera educazione in libera democrazia

Caro direttore, “Libera scuola in libero Stato” è il titolo intrigante del prossimo convegno che si svolgerà il 13 febbraio presso il Senato della Repubblica. Quel titolo riecheggia il manifesto del Risorgimento italiano “Libera Chiesa in libero Stato”, che è stato il riferimento ideale, tanto amato quanto controverso, della nostra storia patria. Può sembrare esagerato il riferimento, ma, forse non lo è poi molto, se si pensa che la scuola rappresenta comunque e sempre il “seminarium Reipubblicae”, di ciceroniana memoria.
Per cogliere al meglio il messaggio che il convegno vuole inviare, basterebbe sostituire i contenitori con i contenuti. Invece di parlare di scuola pensiamo al contenuto dell’educazione e della cultura, invece di nominare lo Stato pensiamo alla sua sostanza democratica per cui “l’Italia è una Repubblica democratica” dove i cittadini non sono più i sudditi di un re.
Allora potrebbe essere più accattivante e coinvolgente cambiare il titolo in “libera educazione in libera democrazia”, nella quale siano i cittadini i quali, come scelgono i governanti e concorrono a determinare la politica nazionale, possano disporre della libertà educativa di scegliere la propria formazione e la scuola a cui affidare i figli, come accade in tutti i Paesi democratici più avanzati.
Nella scuola italiana è già accaduto che la “libertà di scelta religiosa” sia stata raggiunta assegnando alle persone adulte e ai genitori, per i minorenni, la possibilità di aderire o meno all’insegnamento religioso. Fino al 1985 nella scuola elementare l’insegnamento religioso era considerato da decenni come “il fondamento e coronamento di tutta l’opera educativa”. Ora se, in pieno accordo tra Stato e Chiesa, si è arrivati a riconoscere alle famiglie la competenza di scegliere o meno “il fondamento e il coronamento di tutta l’opera educativa”, ci si chiede perché sia così difficile in Italia fare in modo che le medesime famiglie possano scegliere tra scuole statali e paritarie, senza più gli ostacoli economici, che costringono le meno abbienti a frequentare la scuola gratuita statale.
Tra le molte cause e i molti interessi, facilmente intuibili, che sono all’origine di questa eccezione italiana in Europa, vi è il diffuso pregiudizio per cui siano solo lo Stato con i suoi funzionari a garantire autenticità e qualità all’educazione e all’insegnamento, mentre permangono diffidenza e sospetto nei riguardi delle scuole gestite da Enti e privati.
Eppure questo pregiudizio sottende un grave capovolgimento logico e culturale per cui sarebbero le istituzioni statuali a legittimare l’insegnamento e non viceversa: la qualità dell’insegnamento a legittimare la scuola sia statale che paritaria. Spetta alla cultura politica e giuridica legittimare le istituzioni e non viceversa. Alla Repubblica viene riconosciuto il compito di dettare le norme generali sull’istruzione, ma non si assegna né al Ministero né agli uffici amministrativi l’autorevolezza di stabilire l’autenticità educativa ad una metodologia didattica o la legittimità scientifica delle discipline scolastiche.
Nella storia i grandi educatori, da Pestalozzi a don Bosco, a don Milani, non sono stati né ministri né funzionari. La Costituzione italiana afferma, infatti, che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. In un Paese democratico la qualità dell’insegnamento nelle scuole è assicurato non dai funzionari o dagli uffici, ma dai docenti, in collaborazione con il personale scolastico e con i genitori, titolari del diritto dovere di istruire ed educare i figli.
A questo punto va richiamata la distinzione che la cultura della qualità tra quella certificata o quella percepita, come dire rispondente alle esigenze degli allievi e delle famiglie.
Per quanto riguarda la qualità certificata nell’amministrazione statale non si può non segnalare come in questi decenni si siano allentati i controlli sui comportamenti e vanificate le procedure di valutazione degli operatori, per cui si accede all’insegnamento più per anzianità di servizio che per regolare concorso. Per un paradosso, si può dire che la qualità dell’insegnamento è stata privatizzata e affidata alla coscienza dei singoli operatori.
In riferimento, poi, alla qualità percepita e condivisa non sono bastati gli organi collegiali, i patti educativi o i piani dell’offerta formativa per costruire una collaborazione efficace, in grado di migliorare i risultati formativi, che, ogni volta, risultano in fondo alle graduatorie internazionali. Negli istituti statali non si riesce a superare “il conflitto di interesse tra la qualità delle prestazioni e l’interesse degli operatori, a cui è riservata la maggioranza nelle scelte più significative delle scuole” (Associazione TReellle).
Quindi, se non è l’amministrazione statale, in quanto tale, ad assicurare la qualità, risulta ingiustificata la discriminazione che si consuma nei riguardi delle famiglie meno abbienti, che sono impedite dagli ostacoli economici a poter scegliere la scuola in base a criteri di qualità e di rispondenza alle proprie convinzioni educative e culturali (art 26 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo).
In sintesi non si può non condividere l’auspicio degli organizzatori del convegno che anche nel nostro Paese si arrivi a avere la “libera scuola in libero Stato”. In altre parole che si recepisca il rapporto Ocse-Pisa pubblicato lo scorso settembre, che denuncia “in Italia il sistema scolastico è egualitario sulla carta, ma nei fatti non consente ancora di superare le differenze di partenza tra gli studenti legate al contesto familiare e sociale, anzi le consolida… non tutti gli studenti hanno pari accesso a un insegnamento di alta qualità e che questa disuguaglianza può spiegare gran parte dei divari di apprendimento osservati tra gli alunni più favoriti e quelli svantaggiati… l’alta percentuale di abbandono scolastico in Italia è determinata principalmente dalle risorse economiche di cui dispongono le famiglie”.
Giuseppe Richiedei
Foto Ansa
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