Sull’orlo del collasso. È il sistema carceri italiano, come da sempre denunciano i radicali, spesso e volentieri seguiti da altri politici, le associazioni e soprattutto gli operatori che dietro a quelle mura lavorano. Oggi il Sidipe (Sindacato direttori penitenziari) torna a sollecitare il governo in merito all’annunciata riduzione dell’organico del personale penitenziario, incompatibile con una situazione già fuori controllo. Il riferimento è alla circolare del Consiglio dei Ministri sulla spending review (6 luglio) in cui non si rintracciava una deroga rispetto alla «ulteriore riduzione degli uffici di livello generale e di livello non generale, e delle relative dotazioni organiche, non inferiore al 20% di quelle esistenti, e la ri-determinazione delle dotazioni organiche del personale non dirigenziale in misura ulteriore non inferiore al 10%».
Secondo il segretario generale del Sidipe, Rosario Tortorella, si tratta di un grave errore. Perché? «Il personale penitenziario, nonostante il già difficilissimo momento, ha già subito numerosi tagli ai propri organici ed ulteriori riduzioni per i dirigenti penitenziari e per il restante personale dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile». Inoltre la misura è «assolutamente incoerente rispetto alla grave situazione in cui versa il sistema penitenziario, potrebbe determinare l’impossibilità effettiva di assicurare la gestione delle carceri esistenti e di quelle di cui il Governo intende procedere alla nuova apertura». I dirigenti penitenziari, già oggi, sono un numero assolutamente risibile: 392 compresi i dirigenti generali. In più stanno subendo una progressiva riduzione. Per questo si chiede un intervento urgente del governo. Non per difendere una categoria, ma «nel bene del Paese, affinché il sistema penitenziario non sprofondi nell’abisso che oggi si intravede. Nei momenti di gravissime tensione di emergenza carceri non possono venire a mancare, ai vari livelli di responsabilità, le figure professionali deputate a gestire tale emergenza».
I dirigenti hanno infatti il compito, demandato dall’ordinamento, di assicurare l’equilibrio tra le esigenze di sicurezza (penitenziaria e della collettività) e quelle di trattamento rieducativo delle persone detenute. Il carcere è realtà complessa e occorrerebbe, al contrario, «implementare» il personale anche con «educatori, assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali». La rieducazione del condannato è sinonimo di sicurezza dei cittadini, in quanto «la restituzione alla società di uomini migliori e capaci di reinserirsi comporta una effettiva diminuzione della recidiva». Invece, per effetto del D.L 95/2012, «di fatto si bloccherebbe l’attività negli istituti penitenziari e negli altri servizi». Un carcere che dia autentica sicurezza dentro, a chi ci vive e a chi ci lavora, è un carcere in cui lo svolgimento della vita detentiva «non sia rimesso solo al senso di responsabilità di chi in esso è ristretto. E che tale senso di responsabilità potrebbe non avere». Serve un carcere che vuole essere effettivo presidio di legalità, «di giustizia concreta, di rieducazione. Così come lo vuole la Costituzione e le norme internazionali».