«L’abbandono scolastico? Si combatte con l’orientamento, i laboratori e l’educazione»
L’abbandono scolastico in Italia tocca il 20 per cento del totale degli studenti. Dario Nicoli, docente di Sociologia economica all’Università Cattolica di Brescia e profondo conoscitore della realtà formativa italiana, spiega i dati Istat per tempi.it: «L’abbandono è una caratteristica endemica del sistema educativo italiano. È il risultato di molti fattori: uno di questi è sicuramente culturale».
È un problema di chi insegna?
Nella nostra scuola domina il concetto di “docenza” su quello di “insegnamento”, per cui i responsabili della formazione sono più preoccupati di completare il piano di studi che di trasmettere una vera conoscenza ai giovani. Ed essi, di fatto, non trovano una soddisfazione nello studio. Insomma, bisogna passare a una didattica che veda il docente riflettere sul metodo di insegnamento migliore, non sull’erogazione e sul completamento dei contenuti.
I giovani tendono ad abbandonare gli istituti professionali.
La liceizzazione dei percorsi secondari è un altro inceppo del nostro ingranaggio educativo. Istituti tecnici e professionali hanno visto moltiplicarsi materie culturali a fronte di un ridimensionamento delle materie tecniche e di laboratorio. Questo perché negli anni Ottanta e Novanta è invalsa l’idea che la scuola dovesse formare alla cultura in generale, e che il fare “tecnico” fosse una conseguenza della cultura e non ”cultura in sé”. Qui vi è un errore di valutazione, e le faccio un esempio. Un operaio che costruisce avvolgimenti elettrici non è solamente un tecnico, perché tali avvolgimenti si basano su un principio di induzione e di elettromagnetismo che apre a tantissimi sviluppi.
Poco laboratorio, nessuna qualifica lavorativa.
La qualifica è rilasciata dalle Regioni. Quelle più avvertite chiedono come condizione che i professionali facciano più ore di laboratorio. È una via interessante per unire il mondo della scuola a quello del lavoro.
Vi sono altre ragioni dell’abbandono scolastico?
Un altro problema riguarda la leggerezza con la quale si scelgono i percorsi di studio. Non solo per lo studio in quanto tale, bensì nel suo sviluppo occupazionale. È invalsa l’idea che la formazione sia una sorta di rinvio delle responsabilità mentre il giovane è ancora tutelato dalla famiglia. Questa mancanza di responsabilità si tradisce alla prima difficoltà, quando un brutto voto, ad esempio, induce a cambiare istituto, o a smettere. E i genitori fatalmente acconsentono a questi capricci.
È un limite dell’orientamento?
Di fondo è un problema educativo. Un ragazzo, se vuole riconoscere i propri talenti e sentirsi utile, deve impegnarsi negli studi in modo serio, con responsabilità e rigore, pur tenendo conto che si può cambiare opinione e indirizzo di studio. Ma la scuola non è un’esperienza di intrattenimento, o una maledizione che bisogna sopportare, ma un luogo dove crescere.
Come influisce il fenomeno dell’immigrazione sulle percentuali del fenomeno?
Quando una popolazione è in fase di indigenza, essa ha un progetto scolastico molto forte. Il giovane studente è fortemente sostenuto dalla famiglia. Questo capitava in Italia negli anni del boom. Negli ultimi tempi, diventati una società consumistica, dove la soddisfazione non è in un progetto futuro ma è nel presente, il progetto scolastico è deboluccio, la società si imborghesisce. Gli stranieri, consapevoli del problema del reddito, motivano molto i propri figli a far bene nello studio, e la scuola diventa uno strumento di evoluzione e di avanzamento sociale. Per questa ragione, sono propenso a vedere cambiamenti a tempo breve. Con la crisi economica si avverte di più il problema del lavoro, e certe scelte di studi si stanno modificando. Ma non basta “l’effetto frusta”, ci vuole convinzione e rigore educativo.
Come si può arginare un problema così delicato?
Attraverso un buon orientamento, che è sempre mancato nel nostro sistema educativo, accentuando le ore di laboratorio per gli istituti professionali e suscitando una passione educativa che trasmetta ai giovani il gusto per l’apprendimento, non soltanto una conoscenza inerte da mandare a memoria.
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