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La vita «ordinaria, tragica e bella» di Elena Bonner

Elena Bonner, Strasburgo, Francia, 17 dicembre 2008 (Ansa)
Elena Bonner, Strasburgo, Francia, 17 dicembre 2008 (Ansa)

Nata nel 1923 a Merv, cittadina dell’allora Turkestan sovietico, Elena Bonner era figlia di genitori appartenenti all’élite del partito comunista, che però finirono nelle purghe staliniane degli anni ’30. Nel fatidico 1937, l’anno del Terrore, Elena e il fratello si rifugiarono dalla nonna a Leningrado per sfuggire all’internamento che colpiva i figli dei «traditori del popolo».

Dopo la scuola dell’obbligo frequentò i corsi serali di letteratura all’istituto pedagogico mentre di giorno lavorava come addetta alle pulizie. Durante la Seconda guerra mondiale si offrì volontaria come infermiera, e fu gravemente ferita ad un occhio. La sua indole generosa la portò a donare la sua razione di pane a un prigioniero tedesco, e per questo fu espulsa dal Komsomol, l’organizzazione giovanile comunista.

Nel dopoguerra Elena si laureò in medicina e sposò Ivan Semënov, da cui ebbe due figli. Lavorò come pediatra, ma il suo interesse rimase la letteratura, in particolare la poesia, collaborò con l’Unione degli Scrittori e varie testate. Nel 1965 si separò dal marito e si decise ad entrare nel Partito comunista, ma l’invasione sovietica della Cecoslovacchia rappresentò per lei e per molti un autentico shock, e ben presto abbandonò il Partito.

La sua schietta posizione sulla vita non poteva non metterla in conflitto con il sistema totalitario. Già a Leningrado, in una città ridotta alla fame, Elena metteva da parte la propria razione di zucchero e di tabacco per mandarla alla madre Ruth che si trovava nel lager di Akmolinsk, o ad altre detenute di cui si dichiarava sfacciatamente «figlia», «sorella» o «nipote».

Successivamente – dagli anni ’60 – prese le difese di coloro che il regime chiamava «teppisti» e «diversamente pensanti», e divenne un punto di riferimento dei gruppi del «dissenso». Fu nell’ottobre del 1970, mentre assisteva al processo contro due attivisti, che conobbe il fisico Andrej Sacharov, anch’egli difensore dei diritti umani, che sposò due anni dopo.

Seguirono 17 anni di vita insieme «ordinaria, tragica e bella», costellata di perquisizioni, sfiancanti e surreali interrogatori, detenzioni, vessazioni nei confronti dei figli (che furono costretti ad emigrare), fino all’esilio interno.
Il loro piccolo appartamento a Mosca era aperto a tutti, a chiunque si presentasse per confrontarsi sulla situazione dei diritti umani, sulle persecuzioni, sulle violazioni perpetrate sistematicamente nel GULag e nei manicomi criminali.

Quando nel gennaio 1980 Sacharov fu esiliato a Gor’kij, città chiusa agli stranieri, Elena faceva la spola da Mosca per raccogliere e divulgare i suoi scritti, finché lei stessa fu condannata a 5 anni di esilio da scontare col marito. Restano «soli, insieme», ma tutto l’affannarsi dell’apparato per limitare la loro libertà fisica non può, in realtà, imprigionarli e nemmeno disgregare l’unità e l’amore che li lega.

Nell’85 il nuovo leader sovietico Michail Gorbačev permise a Elena di recarsi negli Stati Uniti per sottoporsi a un delicato intervento di bypass al cuore, e nel dicembre dell’anno dopo «graziò» i coniugi permettendo loro di rientrare a Mosca.

«La loro unione rimarrà per sempre un esempio di grande amore e fedeltà a comuni ideali – avrebbe detto l’ex leader sovietico nel giugno 2011, alla scomparsa di Elena. – (…) Ho sempre rispettato e apprezzato Elena Bonner; spesso litigavamo, ma sentivo il suo sostegno e l’intesa tra noi è cresciuta nel tempo. I suoi giudizi e le sue valutazioni erano sempre oggetto di particolare attenzione».

Al suo ritorno a Mosca, insieme ad Andrej contribuì personalmente alla fondazione di organizzazioni non governative, come l’associazione Memorial per il recupero della memoria storica delle vittime del totalitarismo (oggi censurata). Dopo la morte del marito nel dicembre 1989, Elena istituì la Fondazione Andrej Sacharov e il relativo Archivio. Fu nella Commissione presidenziale per i diritti umani fino al 1994, quando si dimise perché non riteneva possibile collaborare con un’amministrazione che aveva scatenato la guerra in Cecenia. Altrettanto critica è stata nei confronti della politica putiniana.

Raggiunti i figli nel 2006 a Boston, pochi anni dopo il suo cuore si fermò per sempre.

In occasione del centenario della nascita, il Centro Sacharov di Mosca ha organizzato una mostra e una serata commemorativa, «probabilmente l’ultimo evento che avremo l’opportunità di presentare tra le mura del Centro», hanno scritto i responsabili. Nel dicembre 2014 infatti il Centro è stato inserito nella lista degli «agenti stranieri», e tre settimane fa ha ricevuto lo sfratto. «C’è un tragico simbolismo in tutto questo, un sintomo emblematico dei tempi difficili e terribili in cui viviamo».

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