Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – La perfetta parabola della post-verità ha finito di disegnarla il Time pochi giorni fa. “Is Truth Dead?”. La verità è morta? La domanda piazzata in copertina la settimana scorsa dal glorioso magazine americano non era solo un modo efficace di alimentare l’isteria da fake news che si è impadronita dell’Occidente da quando Donald Trump ha vinto le elezioni. Era pensata per riprendere una vecchia copertina del 1966 che fece scalpore in tutto il mondo, e infatti la ricalcava perfettamente anche dal punto di vista grafico. “Is God Dead?”. Dio è morto?, si chiedeva cinquant’anni fa il Time per sottolineare un lungo servizio che metteva in forte dubbio non solo la «credibilità» dell’Onnipotente nell’era della scienza e del razionalismo trionfante, ma perfino l’utilità di una sua eventuale presenza nell’universo.
Mezzo secolo dopo, ora che il problema di Dio sembra essere stato ampiamente superato, l’America, secondo il direttore Nancy Gibbs, dovrebbe porsi quello della «Verità» – scritta proprio così, con la V maiuscola – perché c’è un presidente che la minaccia spargendo bufale con «il suo smartphone». Impossibile non intravvedere nel collegamento tra la (presunta) morte di Dio e quella della verità una intuizione notevole. Tuttavia, da parte del Time, storico promotore non innocente della mentalità che avrebbe “ucciso” Dio, beh, il ragionamento suona come minimo beffardo. Per parafrasare un molto citato personaggio di Dostoevskij, se Dio è morto, allora io non son più capitano. Figurarsi se posso pretendere di dispensare qualche «Verità».
Sono passati parecchi anni dal 1966, e se la nostra metà del mondo ha potuto sperimentare ampiamente le conseguenze dell’ateismo globale non è stato certo solo a causa del Time. Però il Time è stato galantuomo. Un esempio? Marzo 2017: Dio è morto da cinquant’anni e il Time può finalmente informare i lettori che ormai siamo “Oltre lui o lei”. Il titolo di copertina, illustrato da una foto di un giovane di sesso indefinibile e di preferenze «nonconforming», era inteso a comunicare che «una nuova generazione sta ridefinendo il significato del genere». Nel servizio si presentava l’esistenza fra i giovani americani di qualche decina o centinaio di “gender” come un dato di fatto assolutamente acquisito e indubitabile (a proposito di «Verità»), e sebbene il significato di alcuni di essi sfuggisse perfino ai militanti Lgbtq intervistati dal Time, «hanno senso per loro, nella loro testa», funzionano per chi li professa. E quindi, che problema c’è?
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Poi, nello stesso fascicolo, a pagina 25, si affacciava un microboxino allarmatissimo: mioddìo, la maggioranza dei giovani americani si beve le fake news! «Una indagine di Common Sense Media ha rilevato che meno del 45 per cento degli americani di età compresa fra i 10 e i 18 anni dice di sapere individuare con precisione le fake news nei feed dei propri profili social, e quasi un terzo degli intervistati ammette di aver condiviso notizie non corrette prima di accorgersi che erano tali».
Era il numero del 27 marzo, in quello successivo la «Verità» sarebbe morta per mano di Trump, il presidente che twitta qualunque messaggio purché funzioni nella sua testa. Ovvio che siamo molto “oltre il vero o falso”. Ma in fondo che problema c’è?