La preghiera del mattino

La vera notizia è che il Ppe punta sul centrodestra in Italia

Manfred Weber e Antonio Tajani omaggiano Maradona a Napoli
Il capogruppo del Ppe Manfred Weber (a sinistra) in visita al murale di Maradona a Napoli con il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani (foto Ansa)

Su Dagospia si scrive riprendendo un articolo di Claudio Tito su Repubblica: «Il Ppe sa che la coalizione di centrodestra può diventare un problema se guidata, anche da Palazzo Chigi, dalla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, o dal leghista Matteo Salvini. I popolari considerano il “lumbard” una sorta di “nemico”. In particolare per i suoi rapporti con Mosca e con il partito di Putin. La linea antieuropeista del Carroccio è fumo negli occhi».

Ecco un bell’esempio di “fake analysis”. Come ha spiegato bene un inorridito Renato Brunetta, che peraltro quando accusa Silvio Berlusconi di non essere lucido è come il bue che dà del cornuto all’asino, la notizia vera è che Manfred Weber punta su un governo di centrodestra. Poi da presidente del Ppe vorrebbe un popolare come Antonio Tajani come premier, ma ciò non depotenzia la scelta fondamentale. Va ricordato come al bavarese Weber fu impedito di fare il presidente della Commissione europea da Emmanuel Macron (e sotto sotto da Angela Merkel, che impose la sua amichetta, il fallito ministro della Difesa tedesca Ursula von der Leyen), che proseguendo sulla sua linea di una politica tecnocratica né di destra né di sinistra, voleva ostacolare un rapporto tra popolari e conservatori (innanzi tutto ungheresi e polacchi). Né va dimenticato come la mitica Ursula venne eletta solo grazie all’impegno dell’attuale “servo di Mosca” Giuseppe Conte. Invece di Claudio Tito, sulla Repubblica si dovrebbe leggere l’eurodelirante Andrea Bonanni che, smarrito, spiega come nel Ppe e quindi nell’Unione Europea stia tornando una politica pluralistica e non più solo consociativa.

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Su Affaritaliani Pier Ferdinando Casini dice: «Le forze che si sono riconosciute nel programma del premier ritengo che oggi siano chiamate a superare i loro personalismi».

L’autolesionismo dovrebbe avere dei limiti. Se si superano i personalismi, che ruolo potrà mai avere un leader dei moderati conservatori eletto poi nel collegio più di sinistra di Bologna? O uno come Roberto Speranza che ha fatto una scissione nel Pd perché non voleva più un partito che puntava solo sui banchieri? O uno come Luigi Di Maio passato da sfasciacarrozze ad adoracarrozze? Solo il riconoscimento del valore della singola “personalità” dà a questi naufraghi raccolti dalla zattera di Mario Draghi qualche prospettiva. L’esempio è quello del grande ministro degli Esteri francese passato da esponente di primo piano della Rivoluzione dell’89 a esponente di primo piano della Restaurazione nel 1815. D’altra parte, in questo senso, comprendo, come i nostri Talleyrand alle vongole possano avere qualche dubbio sulle proprie qualità e cerchino così di buttarla in politica.

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Sul Sussidiario Giulio Sapelli scrive: «Un presidente della Repubblica, al quale va tutta la nostra dedizione, che è certo ispirato dalla lampada di un Aladino che s’inventa “governi senza formula politica” (una sorta di rimasticatura da bignamino di Carl Schmitt), per poi ritrovarsi quel governo medesimo immerso in una vera e propria “formula politica“ (come è accaduto in questi convulsi giorni!)».

È con malinconia che si assiste al fallimento della strategia di un presidente della Repubblica, animato da una formidabile spinta morale e dalla ricerca del bene dell’Italia, ma incapace di tradurre queste preziose motivazioni in una politica razionalmente democratica. Dopo oltre dieci anni (si iniziò con Gianfranco Fini già nel 2009 e si partì con decisione con l’inconsistente Mario Monti) che prima con Giorgio Napolitano poi con Sergio Mattarella si vuole manovrare la politica nazionale dal Quirinale. Ed è forse tempo di fare un bilancio. Un dato per orientarsi: l’ultimo governo Berlusconi portò Mario Draghi alla presidenza della Bce. Uno degli esecutivi fatti sotto la regia dell’attuale capo dello Stato ci ha consegnato un Paolo Gentiloni commissario europeo, vice di Valdis Dombrovskis, a sua volta vice della stordita Ursula von der Leyen.

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Su Strisciarossa Marcello Mustè scrive: «Il dato fondamentale della situazione politica italiana è la cornice di una democrazia senza partiti. Per un lungo periodo, abbiamo scambiato questo dato per un “segno dei tempi”, come se fosse una tendenza naturale dell’epoca, della modernità matura (o, come si dice, della post-modernità), senza riflettere abbastanza sul carattere paradossale di quella formula. Una democrazia senza partiti, come una democrazia senza popolo, non è propriamente una democrazia, ma una transizione pericolosa, incerta, un piano inclinato che può evolversi verso una vera democrazia o regredire verso forme autoritarie o tecnocratiche. La storia di questa decomposizione è ormai lunga ed è stata raccontata più volte, non sempre con la dovuta consapevolezza. Inizia con la fine del mondo bipolare, con la scelta (secondo chi scrive inevitabile, ma non per questo condotta nel modo migliore) del Pci di chiudere la sua esperienza storica, prosegue con il cataclisma di Tangentopoli, trova una composizione e quasi una supplenza nel periodo dell’alternanza tra Berlusconi e Prodi, sfocia nella formazione di nuove figure politiche, specie “populiste”, e in una serie di scissioni, che contribuiscono a frammentare ulteriormente il quadro politico».

Ecco una riflessione da sinistra ricca di preoccupazioni democratiche che non ritrovi negli indirizzi di quel prefetto francese che Emmanuel Macron ha prestato al Pd.

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